Promises, la recensione

Una co-produzione italo francese girata in inglese con Pierfrancesco Favino che ama (ricambiato) Kelly Reilly ma la vita si mette in mezzo

Critico e giornalista cinematografico


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Promises, la recensione

La produzione è italo-francese, il cast è quasi tutto inglese, la lingua parlata è l’inglese, l’autrice è anglo-francese, Amanda Sthers, il protagonista è Pierfrancesco Favino. È un ensemble particolare per una co-produzione con la Francia evidentemente di grande ambizione (anche nella scrittura) ma mai di grande fattura.

C’è una vita intera dentro Promises, decostruita temporalmente per raccontare di promesse non mantenute e di sentimenti di un uomo che ha perso il padre da piccolo, ha un rapporto non facile con un nonno, due donne da cui ha avuto dei figli e una che ha sempre amato (ricambiato) e mai avuto. Vediamo gli eventi non in ordine cronologico passando dalla sua età infantile a quella anziana e poi di nuovo i suoi 30 anni e ancora l’adolescenza.

La decostruzione temporale di una storia sentimentale per lasciar emergere il sentimentalismo è diventato davvero un espediente da cinema mainstream con 500 giorni insieme e in Italia già l’avevamo utilizzato (e bene) in Ricordi? di Valerio Mieli. In ognuno di questi casi c’è una ragione per decostruire, cioè non raccontare cronologicamente serve a far emergere un senso differente che altrimenti non si potrebbe cogliere con la stessa forza, ci aiuta a porre l'attenzione altrove. Questo non è vero in Promises. Anche quell'idea di una vita intera dominata da un desiderio d'amore inappagato non è fomentata dai salti temporali ma sarebbe stata comprensibile non diversamente in un racconto più lineare.

Promises poi non ha nemmeno l’obiettivo di confondere per stordire (come faceva Ricordi?), far perdere l’orientamento e appiattire tutti i momenti su un unico presente emotivo, come se quell’amore non invecchiasse mai. L’espediente sembra un trucco.

Che ciò che avviene sia emotivamente probante non ci sono dubbi, ma lo comprendiamo più razionalmente che emotivamente, perché è troppo sciatta la messa in scena per fare quel lavoro espressionista di risalto dell’emozione. Specialmente sul fronte della recitazione. I tre grandi amici per una vita non sembrano mai tali: Favino, Deepak Verma e Kris Marshall (mai così svogliato e fuori dal film) non creano gruppo, non ci appaiono davvero legati. Il trucco che invecchia e ringiovanisce non è mai preciso e così nelle varie fasi della vita i personaggi non sembrano avere l’età che dovrebbero, che è un problema se saltiamo di continuo e abbiamo bisogno di riferimenti. Ci sono una quantità di momenti in cui qualcuno pontifica sui sentimenti che ammazzano ogni coinvolgimento, lasciando sospese frasi poetiche che non lo sono. Anche gli snodi migliori, quelli più tempestosi e romantici non godono mai del respiro e della costruzione di cui necessiterebbero per maturare qualcosa dentro di noi.

E infine questo feeling di una vita non vissuta ma solo promessa, di un tempo lungo che passa senza aver davvero amato chi si voleva non emerge mai, perché la chimica tra Kelly Reilly e Pierfrancesco Favino (che sceglie di recitare con un’inflessione britannica più britannica degli altri inglesi intorno a lui) non si concretizza mai e non si accende mai nonostante una bella scena in bagno iniziale lasci presagire il meglio. Lo stesso non ci paiono due metà di una stessa mela che la vita non unisce ma più due sconosciuti fissati con l’idea di dover stare insieme. Il loro non è un amore unico contrastato dal tempo (vero villain di qualsiasi melodramma che si rispetti) ma un’ossessione che sa di stalking.

Due ore piene di durata non aiutano.

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