Prometheus, la recensione
Un Ridley Scott in grande spolvero, per un film che indaga l'origine della vita, e degli Alien, senza raggiungere le vette del capolavoro per colpa di... [no spoiler]
ATTENZIONE: LA RECENSIONE E' SPOILER-FREE!
La verità dei fatti è che, per fare il mestiere di critico o giornalista cinematografico, bisogna nutrirsi e vivere della propria passione e dei propri interessi. Essere costantemente soggetti a bombardamenti mediatici di ogni sorta riguardanti il dorato mondo di Hollywood, su quello che accade all'interno di questo reame e dover trattare tutto questo flusso ininterrotto di materiale, significa però dover assumere un atteggiamento contraddittorio, se non ai limiti della schizofrenia, verso la settima arte: critico, professionale, distaccato nonché partecipe e all'insegna della curiosità più genuina. Nulla di strano quindi se, per parlare insieme a tutti voi di un film così a lungo atteso come Prometheus di Ridley Scott, ci siamo spinti all'estero guidati dall'incapacità fisiologica di attendere il 19 ottobre, giorno in cui l'ultima fatica del regista inglese si paleserà all'interno dei cinema del nostro Paese. Il desiderio di capire, finalmente, come e se Prometheus si vada a collegare a una saga, quella di Alien, che ha fatto la storia del cinema di fantascienza a forte tinte horror, era letteralmente insostenibile.
In maniera tautologica, ma necessaria, dobbiamo ripetere per l'ennesima volta che Ridley Scott nel 1979 e nel 1982 ha letteralmente ridefinito la fantascienza con Alien (prima) e Blade Runner (poi). Tralasciando i “lavori in pelle” di Rick Deckard, buona parte della riuscita del lungometraggio che per la prima volta ci ha fatto conoscere gli xenomorfi di H.R.Giger si deve al mai dimenticato sceneggiatore e regista Dan O'Bannon. Uno che prima d'imbattersi nell'autore inglese aveva scritto il seminale Dark Star di John Carpenter e lavorato come computer animator per Star Wars, che si è poi ritrovato a creare lo script per il film di Scott, mentre dormiva, squattrinato e disoccupato, sul divano del suo amico Ronald Shusett.
Dove e come s'incrociano queste due strade? Impresa non facile che affronteremo, naturalmente, in maniera del tutto spoiler-free.
L'aspetto più lampante di Prometheus è il suo dialogare con la trama in maniera diametralmente opposta a quanto orchestrato in passato, tanto dal punto di vista estetico, della messinscena che delle tematiche alla base della storia. Alien era un film che agiva sulla sottrazione, degli spazi, delle armi, delle informazioni a disposizione dei personaggi, dialogando in modo primordiale con la paura, con le aberrazioni freudiane del design fallico dello xenomorfo, di quello vaginale dei facehugger e della prima eroina del cinema mainstream, cazzutissima seppur non dotata di un pene (temi che verranno ulteriormente ampliati con gli sviluppi della saga).
Visto il coinvolgimento in fase di riscrittura della sceneggiatura di un certo Damon “Lost” Lindelof e considerata la volontà, sacrosanta e mai troppo lodata, di Scott di non voler ripetere quanto già visto in precedenza, Prometheus regala allo spettatore un'esperienza visiva mozzafiato, arricchita da un uso magistrale della stereoscopia, in cui i personaggi vengono posti di fronte a questioni che ruotano intorno alla fede e al chi ha creato chi.
E sul perché lo ha fatto.
Inquadrato in quest'ottica, Prometheus è sia il prequel di Alien che un film capace di dare vita a un nuovo franchise. Le motivazioni che spingono la Dottoressa Shaw di Noomi Rapace a viaggiare nello spazio per ben due anni, immersa nell'ipersonno insieme agli altri membri dell'equipaggio dell'ipertecnologica astronave Prometheus, ad esclusione dell'androide David di Michael Fassbender, vengono però sviluppate in modo talvolta illogico. Non si capisce bene se le porte siano state lasciate socchiuse per condurre lo spettatore a darsi da solo delle risposte o per portarlo, inevitabilmente, a esigere a gran voce un sequel. Se non altro Lindelof, pur manipolando temi spinosi come il rapporto fra fede e scienza, non cade nel tranello della supponenza mentre ne parla. Inciampa su di essa quando si tratta di motivare le scelte e i comportamenti di alcuni personaggi, che diventano più leggibili solo alla luce di materiali virali che non è detto siano stati visti da ogni spettatore entrato in sala, o quando ce li fa vedere in atteggiamenti decisamente “poco sicuri e sani”, andando a sfidare anche la “sospensione dell'incredulità” del pubblico più ben disposto. Appare comunque manifesta la sottotraccia lovecraftiana della premessa del film, tanto che, usciti dal multisala, la dichiarazione di Guillermo Del Toro “Prometheus mette a morte certa l'adattamento delle Montagne della Follia” ha eccheggiato nella nostra testa con persistenza.
E' questo l'anello debole, che tanto valeva affrontare subito, di un'operzione cinematografica estremamente interessante e solida che viene salvata grazie alla perizia di un filmmaker come Scott che, a 74 anni suonati, ci ricorda a chiare lettere perché valga la pena aspettare altri quattro mesi e mezzo per vedere la sua creazione su uno schermo grosso quanto la porzione di un palazzo. Fidatevi di noi e non cedete alle facili lusinghe del download illegale. Vedere un Cam o anche un Dvd o Blu-Ray rip di questa pellicola sarebbe uno scempio.
Fin dagli istanti iniziali, quasi sperimentali e kubrickianamente zarathustriani ambientati nei “sovrumani spazi” di una desolata landa nordica, Prometheus si merita di essere descritto con aggettivi come “sontuoso” e “imponente”. Il design mercantile tipico dei primi due Alien viene riattivato grazie al ritorno a un immaginario estetico che ha influenzato per trent'anni cinema, televisione e videogiochi – prima di questo film l'unico vero epigone del cult di Ridley Scott uscito nel 1979 è il franchise videoludico dell'Electronic Arts Dead Space – riveduto e corretto secondo criteri ben più solidi di quelli impiegati da George Lucas per il suo “prequel tecnologicamente più avanzato sequel” conosciuto dai più col nome di Star Wars Episodio I – La Minaccia Fantasma. Anche la nave che dà il titolo al film, nonostante una linea e una “dotazione di optional” nettamente più all'avanguardia della Nostromo, è una creatura delle celebri industrie Weyland e, in quanto tale, ne ricorda gli interni in più punti.
La regia di Scott riflette, anche grazie a un 3D mastodontico che amplifica la sensazione d'impotenza e nullità di personaggi alle prese con i segreti della creazione e i pericoli che derivano da questa indagine, le aspirazioni di un'affresco sci-fi letteralmente titanico. Ai buchi di una sceneggiatura non perfetta arriva a porre rimedio una direzione sempre sicura, supportata dalla magistrale fotografia di Dariusz Wolski, che sa quando andare a strizzare l'occhio al fan o a terrorizzare lo spettatore. Non è tanto dal punto di vista narrativo che Prometheus va a collegarsi al capolavoro datato '79. C'è lo Space Jockey già visto nei trailer, questo è vero, ci sono quegli “otto minuti finali che evolveranno nel bel DNA di Alien” e malgrado la differente gestione dell'elemento spaziale e anche di quello musicale – Alien era una pellicola fatta di silenzi, qua le note della colonna sonora di Marc Streitenfeld sono onnipresenti – è nelle esplosioni splatter, nei corridoi bui percorsi da personaggi ignari di quello che sta per accadere loro che il fan della saga troverà pane per i suoi denti (poi, è chiaro, c'è un'altra cosa che non riveleremo neanche sotto tortura, ma che ha generato nel nostro fisico sensazioni da “orgasmo di celluloide”).
Il cast del film vede prevalere su tutti l'androide di Michael Fassbender. Impossibile osservare la solitudine del viaggio interstellare di David, “custode” della nave spaziale e del suo equipaggio umano, senza essere influenzati dalle indimenticabili performance di Ian Holm e Lance Henriksen domandandosi, di conseguenza, tante, troppe cose. Forse però, chi non ha mai avuto modo di vedere Alien e Aliens resterà affascinato, ammaliato dallo sguardo tenero, stupito, ai limiti dell'ingenuità infantile con cui la “persona artificiale” affronta la routine del tragitto verso LV-223. Noomi Rapace, dopo essere stata impiegata in maniera del tutto marginale da Guy Ritchie in Sherlock Holmes: Gioco di Ombre, ha finalmente occasione di tornare al centro della luce del riflettore. La sua Elizabeth Shaw è quanto di più distante dalla Ellen Ripley di Sigourney Weaver avessimo mai pensato di vedere. Se il personaggio della Weaver aveva già un background “mercantile” per così dire, l'archeologa della “ragazza che giocava con il fuoco” è una sorta di Santa Maria Goretti che, messa alla prova da eventi che mai si sarebbe sognata di dover affrontare, si ritrova a dover sfoderare le cosiddette “palle d'acciaio” senza per questo perdere la sua coerenza personale; cosa che, alla luce di certi elementi che emergono nel film, può anche essere intesa come un autogol. Idris Elba, Charlize Theron e Logan Marshall-Green avrebbero forse meritato più spazio, ma anche qui le pecche sono tutte in fase scrittura delle parti piuttosto che nella recitazione delle stesse.
Come recita la sibillina introduzione della trama ufficiale del film diffusa ormai mesi fa dalla 20Th Century Fox “Ridley Scott torna al genere che ha contribuito a definire, creando un film fantascientifico originale epico ambientato negli angoli più pericolosi dell'universo”. Se questo ritorno fosse stato accompagnato da una sceneggiatura meno votata a una volontà di serializzazione, mai celata questo va detto, e da una generale supponenza dell'approccio verso i personaggi e il loro agire avremmo avuto davanti il terzo capolavoro sci-fi firmato Ridley Scott. Invece il filmmaker inglese deve “acconentarsi” di aver ritrovato un gusto per la visione e la messa in scena tipico degli anni in cui ha diretto il leggendario spot orwelliano della Apple. A mancare quindi non è tanto il manico del regista, quanto il polso dello sceneggiatore.