La profezia del male, la recensione

La recensione de La profezia del male, l'horror diretto da Anna Halberg e Spenser Cohen, al cinema dal 9 maggio

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di La profezia del male, il film dell'orrore su tarocchi e oroscopo in uscita il 9 maggio

Da alcuni dei film peggio sceneggiati degli ultimi anni (Moonfall, I mercenari 4) arrivano Spenser Cohen e Anna Hallberg, le due menti dietro La profezia del male (titolo italiano che genericizza e astrae il più chiaro Tarot originale, come se ce ne fosse bisogno). Horror indipendente poi acchiappato da Sony che non si è lasciata sfuggire questa perla del nulla più assoluto. B movie senza niente di ciò che i B movie hanno di intrigante, senza nessun vantaggio dell’essere indipendente, senza nessuna libertà. In nessun senso. Un film derivativo nella concezione, dozzinale nell’esecuzione e deprimente negli esiti. 

Non sarebbe nemmeno un horror, non fosse per la tonnellata di jumpscare di cui è costellato continuamente e per il fatto che è tutto girato al buio perché lo aiuti un po' a mascherare un po' a spaventare, l'unica soluzione di paura che sembra conoscere, ma è più un film della serie “morirete tutti in sequenza”, un po’ Final Destination (ugualmente fatto male ma almeno creativo), e un po’ generica messa in scena di mostri. È la storia di un gruppo di amici che si fanno i tarocchi con delle carte trovate in una casetta affittata. Sono carte maledette ma non lo sanno, quindi tutto l’oroscopo incrociato con i tarocchi che ne esce in realtà è un annuncio di come sono condannati a morire di lì a poco, per mano di ciò che l’ultima carta raffigura e che si materializza.

Non mancano tutte le banalità del caso: dalla vecchia che sa tutto della maledizione a cui rivolgersi quando ormai è troppo tardi, al ribaltare contro il maligno le sue stesse armi, fino al trauma nel passato di qualcuno che fu maltrattato e ha dato origine a tutta la maledizione. Un sunto di cosa fanno gli horror senza inventiva oggi, solo fatto male, in fretta e con nessuna cura. Lo si vede dalla scelta degli attori (Jacob Batalon preso per ripetere il suo personaggio della nuova trilogia di Spider-man), lo si vede dai riferimenti instant fuori luogo (la fissazione per i podcast true crime) ma soprattutto lo si vede dal design delle creature che sembrano prese da uno stock di immagini a basso costo.

Superfluo dire che i personaggi non hanno nessuna personalità e quindi alla fine è complicato tenere a loro. Che siano o no schiacciati da una scala, che siano o no impiccati o bruciati, non ci cambia molto, guardiamo con passività uno schermo in cui passano atrocità in computer grafica. Una ad una. E un finale che copia la trovata con cui viene chiuso Get Out (ma ovviamente senza quel senso lì) vuole far finta di non curarsi di eventuali sequel. Come se davvero ci potessimo credere.

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