Prisoners, la recensione [2]

Il franco-canadese di La donna che canta approda in America e gira un thriller come non se ne vedono. Rarefatto e calato a pieno nella pioggia e nella disperazione della privazione.

Critico e giornalista cinematografico


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Scoperto dall'Italia un paio d'anni fa con La donna che canta, Denis Villeneuve è il secondo franco-canadese dopo Xavier Dolan a cercare di cambiare la percezione che abbiamo dei generi e Prisoners, in quanto suo primo film americano, è un passo in avanti mostruoso in questa direzione. Un kidnapping-movie tutto ricerca affannata, mondo grigio-piovoso e sfiducia nelle istituzioni che sembra instradato sui percorsi più tipici ma lentamente si rivela come uno studio umano su un padre alla ricerca della figlia rapita e un poliziotto martoriato dal senso di colpa e di responsabilità.

La dote principale di questo regista, quella di ampliare gli spazi, di far sembrare che tutto si svolga in luoghi immensi anche quando è in una casa o un paesino, diventa per la prima volta funzionale allo smarrimento di una ricerca folle.

Una sceneggiatura propostagli dalla Warner, una sincera ignoranza del cinema thriller e la volontà di farci qualcosa di diverso con degli attori vogliosi di dimostrare, hanno creato Prisoners, film in cui Villeneuve delega la parte di suspense allo script e lascia a sè il compito di allargare quella drammatica, cambiando tutti i tempi e dando nuovo senso a questa tipologia di film.

Perchè solitamente i kidnapping movie sono come dei maglioni a maglie strette, in cui tutto è fatto con il fiato in gola, la ricerca del rapito è una corsa contro il tempo montata in alternato con la fatica della prigionia, in Villeneuve invece diventa un tessuto a maglie larghissime, dilatate, ariose in cui il tempo del racconto sembra fermo e in cui le atmosfere rarefatte mettono in risalto lo stato di follia cui la disperazione conduce i protagonisti.

Tutti gli strumenti dei thriller statunitensi sono presenti, tutti i luoghi comuni su un certo tipo di America (conservatrice, armata, violenta e pronta a tutto) non mancano nè è assente quel modo tipico dei thriller contemporanei di guardare gli sforzi di un uomo che si battersi per l'integrità della propria famiglia, ma di nuovo Villeneuve non è un cineasta normale, non è un appassionato di thriller e non desidera raccontare un intreccio quanto raccontare uomini.

Come già capitava in La donna che canta, anche qui è nel finale, cioè nel momento risolutorio per eccellenza (sia che tutto vada bene sia che vada male), che Villeneuve manifesta in pieno la disillusione del suo sguardo, con un contro-colpo di scena che sembra rendere tutto vano, dando l'ultima mano di vernice sulle immagini del film che a quel punto non si cancellano più dalla testa.

Quando credevamo di aver visto solo un curioso thriller dalle atmosfere riuscite, ci rendiamo conto che tutta quella pioggia, quelle espressioni cupe, quel grigio e quel fango servivano a molto di più che un generico senso d'inadeguatezza.

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