Prisma: la recensione della seconda stagione

Con il passaggio alla seconda stagione Prisma conquista più trama e perde in rarefazione, ma conferma tutto quello che di buono si era visto

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione della seconda stagione di Prisma, disponibile su Prime Video dal 6 giugno

La seconda stagione di Prisma non ricomincia con semplicità; ti rigetta addosso tutte le vicende come se non fosse passato un giorno dalla fine della prima, riparte senza nessun rodaggio o accompagnamento dello spettatore. Fin dalla prima puntata riprende il suo ritmo (che non è certo elevato, ma è un ritmo preciso e costante) e la cosa può creare un po' di confusione. I primi due episodi sono i più caotici, a meno di non vederli attaccati agli ultimi della stagione precedente. Poi, già a partire dal terzo, si sente la nuova mano e comincia a tutti gli effetti una nuova stagione.

È la nuova mano di Ludovico Bessegato e Francesca Scialanca, che prende il posto di quella di Ludovico Bessegato e Alice Urciuolo, meno contemplativa di prima, più focalizzata su un intreccio (o meglio, una serie di intrecci) che obbliga i protagonisti a muoversi e agire continuamente, e capace di spaziare tra i generi. Prisma rimane il racconto di una maniera diversa di vivere la sessualità da parte di chi la scopre, cioè adolescenti e post-adolescenti, ma in questa seconda stagione ciò che nella prima era interiorizzato diventa esteriorizzato e in un certo senso “sceneggiato”.

Se infatti in precedenza i personaggi nascondevano la propria natura, si chiedevano come rivelarla oppure erano semplicemente reticenti ad abbracciarla (vale anche per Carola, il personaggio a cui manca parte di una gamba, che non poteva nascondere la sua condizione ma era meno a proprio agio con essa), ora sono nella fase in cui devono mettere in relazione la propria identità con il resto del mondo. Questo era prevedibile che accadesse assecondando movimenti, idee e svolgimenti delle serie teen, meno che invece prendesse la piega di volta in volta, di una storia di grandi domani (la linea di trama del gruppo trap) o di una trama che lambisce il mondo criminale.

Evoluzione narrativa nella seconda stagione di Prisma

Bessegato e Scialanca non snaturano Prisma ma lo ampliano, marginalizzando la componente più rarefatta e concentrandosi di più sulla narrazione. Anche per questo Prisma rimane l’unico reale esempio di prestige television in ambito teen che esista in questo momento in Italia, e quindi semplicemente trascende la gabbia del genere teen finendo per non avere più nessuna caratteristica al di fuori dell’età dei personaggi. Ora però con la seconda stagione l’impressione è che si voglia portare quell’atteggiamento, cioè quella maniera di fare un racconto senza appoggiarsi alle solite strutture, senza imitare pedissequamente i soliti modelli e senza rassicurare il pubblico, facendo procedere gli eventi esattamente sui binari che si può attendere, anche a un pubblico maggiore, con toni più mainstream e coordinate più riconoscibili.

Ci sono cinque trame principali, che riguardano i cinque personaggi fondamentali (più o meno, alcuni poi agiscono in gruppo): sono tutti intrecci sentimentali che, come tipico della serie, esplorano la scoperta di un’identità sessuale, pongono delle questioni che raramente ci si pone quando si parla di omosessualità o bisessualità, oppure introducono complessità in argomenti che di solito sono trattati con semplicità (si veda il rapporto di Carola con la giustizia, il senso della morale difficile da individuare tra la denuncia e l’aiutare un’amica). Che poi è la definizione stessa di quality tv: non fermarsi alla prima domanda del pubblico ma generarne di nuove al procedere del racconto, possibilmente stimolando risposte più che dandone.

Rappresentazione delle Tematiche LGBTQI+ in Prisma

A colpire più di tutto però, ancora una volta, è la maniera in cui la serie tratta sia i protagonisti che gli spettatori, cioè non solo l’adesione iperrealistica ai dialoghi, alle situazioni (anche quando generano intrecci tipici da racconti audiovisivi) e alle complessità delle relazioni (fanno eccezione quelle con gli adulti, sempre molto tarate su standard accettati di opposizione o comprensione) che rendono ogni personaggio estremamente vivo e danno al racconto una forte imprevedibilità, ma è rinfrescante proprio lo spettatore ideale che Prisma immagina.

Questo non è un racconto pensato per consolare la propria comunità di riferimento (LGBTQI+ in primis, ma poi anche chiunque si percepisca in trasformazione, in minoranza o non per forza aderente al sentire comune), non è pensato per esaltare le gioie della diversità (anzi, forse per raccontare la fatica della maturazione di un’identità che rimane sempre in movimento), non è pensato nemmeno per imboccare di nozioni gli spettatori. Questa è una serie pensata per sfidare i propri spettatori, le loro convinzioni e qualsiasi cosa pensino di conoscere bene e riguardo la quale si sentano di avere un’opinione certa. Non è facile e non è necessariamente qualcosa che acchiappa i favori, ma nondimeno è la materia di cui sono fatti i racconti più interessanti.

Che questo avvenga nella più generale area della sessualità fluida o dell’integrazione delle diversità, è ancora più audace per lo scenario mediatico italiano, in cui tutto questo è molto presente e molto raccontato ma sempre assecondando stereotipi. Questi stereotipi possono evolversi (il più grande cambiamento è stato il passaggio dall’omosessuale macchietta a quello sofisticato e simpatico) ma rimangono tali, coltivando non solo un immaginario povero ma una comprensione della realtà scarsa. Prisma fa il lavoro opposto, intorbida le acque, amplifica le differenze e non appena stabilisce certi valori, cioè che un certo personaggio fa qualcosa di giusto o di condivisibile, subito dopo li sovverte, affermando anche l’opposto e facendoli convivere con coerenza. Che è la cosa più difficile.

Continua a leggere su BadTaste