Prisma, la recensione della prima stagione

Un gruppo di ragazzi che in modi diversi non si percepiscono come appaiono sono raccontati con un naturalismo invidiabile

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di tutti gli episodi della prima stagione di Prisma, la serie disponibile su Prime Video dal 21 settembre

Fin dalla prima puntata di Prisma sembra di essere alla sua seconda stagione. Sembra cioè che ci sia stata già una prima stagione che non abbiamo visto e i cui eventi hanno influenzato quel che accade ora. Gli antefatti di questa trama non sono infatti solo una backstory ma un intreccio complesso tanto quanto quello del presente, che lo influenza e che ha fatto partire l’arco narrativo dei personaggi. Lo scopriamo per gradi e lentamente durante le puntate, non procedendo in senso logico ma per suggestioni e richiami, in modo che per avere il quadro completo dobbiamo arrivare all’ultima puntata. Questo, da subito, fa sì che fino all’ultimo non abbiamo il quadro completo degli eventi, proprio come i personaggi che non sanno tutto di tutti ma lo stesso devono fare delle deduzioni. Spesso sbagliate, che poi è il punto di tutto. 

È la scelta che risalta più in questa produzione inevitabilmente figlia dell’esperienza di Ludovico Bessegato e di Alice Urciuolo (ma di tutta la Cross Productions) su Skam Italia, che cerca di portare quell’idea di serie teen ad un altro livello. Non è solo che il tema lavora molto più sull’ambiguo e sul complesso, ma anche che quell’approccio lì, quello che traduce in una forma realmente cinematografica un naturalismo che non è mai semidocumentarismo, non vuole ritrarre le cose come sono e basta. Prisma vuole trasfigurare la realtà come fanno i film e le serie migliori ma lo fa tenendo per sé un’invidiabile credibilità di svolgimenti, situazioni e personaggi. Sembrano persone reali e non personaggi anche se hanno vite e archi narrativi di finzione, perché c’è un lavoro sul dialogo (sulle parole proprio) e sulla recitazione non comune.

C’è chi non è a proprio agio con la propria immagine (ma non per questo non lo è con la propria sessualità), c’è chi è omosessuale, chi è bisessuale, chi è eterosessuale senza tuttavia doversi comportare come ci sì aspetterebbe da un maschio, ci sono poi i classici bulli che classici non lo sono per niente, una ragazza senza parte di una gamba e molto altro di diverso dal convenzionale. Modelli di identificazione che non hanno niente di prevedibile, agitati in una trama che li mette sempre a confronto con il proprio corpo, con il proprio atteggiamento o con le scelte che fanno. Gli intrecci come si conviene al genere sono tutti sentimentali, ma anche lì, difficilmente portano a quel che ci si aspetta.

Delle molte serie di qualità che si producono in Italia non tutte sono realmente di qualità, perché non tutte ingaggiano un rapporto complesso con lo spettatore, non tutte usano la scrittura e poi la regia per dire più di quello che è messo in video, più di quello che l’intreccio non affermi. Prisma è senza dubbio serialità di qualità. Ha la medesima sana perversione già ammirata in Skam Italia di far capire cosa pensino i personaggi senza farglielo dire, utilizzare piccoli sguardi, microespressioni e niente che sia smaccato per chiarire in un colpo che c’è un retropensiero non espresso riguardo quel che avviene, che c’è un piano, un’idea o un mutamento in corso che è cruciale ma che se si ascolta la serie e basta non sì capirà mai. E più avanza l’esperienza di Bessegato (qui pure regista di tutte le puntate) in questo tipo di produzioni più tutto questo si fa naturale, quasi invisibile.

Ad esempio uno snodo cruciale per l’intreccio (cioè qualcuno che realizza una cosa che non sapeva e che cambia tutto quello che pensava) arriva non tramite la più classica delle confessioni o tramite la scoperta di una foto, un biglietto o simili, ma tramite l’ascolto di una canzone che noi siamo stati educati a sapere che ha un certo significato per le persone in causa. Così che nessuno debba dire niente. Perché anche in Prisma tutto quello che di importante c’è da dire non lo si dice a parole. Le parole servono a portare avanti gli intrecci, i dialoghi creano un’atmosfera, una credibilità e avvincono. Sono semmai i corpi a dire tutto. Scelti benissimo, soprattutto quelli dei ragazzi. Atletici quelli dei nuotatori ma anche mutilati da un evento traumatico alcuni, segnati dall’esigenza di sembrare duri oppure all’improvviso dolcissimi.

Questa è la storia di come si appare davanti agli altri e del maturare confidenza con il contrasto tra come si desidera apparire e come invece si è (cosa che vale anche per il bullo di Zurzolo). In questo senso è eccezionale la scelta di avere due gemelli al centro di tutto (interpretati dal medesimo attore, Mattia Carrano) cioè due modi diversi di apparire nello stesso identico corpo e il fatto che già nella prima puntata si scambino, quando uno finge di essere l’altro proprio perché sa di avere un atteggiamento diverso che può avvantaggiare il fratello (ma viene subito scoperto), è la promessa migliore di complessità che la serie poi saprà mantenere fino al finale.

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