Priscilla, la recensione | Festival di Venezia
Priscilla di Sofia Coppola è un film di una vacuità discorsiva sconcertante, superficiale nella sua costruzione conflittuale e fuori dal tempo nella sua approssimazione vittimista.
La recensione di Priscilla, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2023
A vedere Priscilla si fa veramente fatica a capire perché Sofia Coppola abbia scelto di parlare proprio di questo personaggio, proprio in questo momento. Messa da parte la curiosità storica su un personaggio accantonato dalla memoria collettiva, il film racconta banalmente Priscilla come una giovane donna illusa da un amore adolescenziale che accetta di vivere in una gabbia dorata, nonostante le violenze, nonostante la manipolazione che Elvis operò su di lei, salvo poi stancarsi un giorno e decidere finalmente di cambiare. Il tutto senza raccontare nulla se non ciò che vediamo ad occhio nudo. Coppola ritrae Elvis con grande durezza, lo rende un personaggio odioso e odiabile agli occhi dello spettatore nei suoi momenti di rabbia, nella sua evidente cafoneria nei confronti di una ragazza che palesemente sembra tenere vicino a sé soltanto per noia, per capriccio. E così l’uomo detestabile diventa il facile nemico di un personaggio succube, quello di Priscilla, che in questa gabbia vive come un trofeo di perfezione estetica, incapace di ribellarsi perché, si limita a farci intendere Coppola, è semplicemente innamorata.
Da sempre Coppola ama osservare i suoi personaggi nella loro relazione con gli oggetti che li circondano, e infatti la cosa più interessante di Priscilla è lo studio estetico che viene fatto del personaggio. Coppola si sofferma tantissimo sul modo in cui Priscilla cambia - spinta da Elvis - il suo aspetto nel corso del tempo, dai vestiti ai capelli passando dal trucco, in una progressiva “bambolificazione” che la rende tanto graziosa quanto decorativa, alla stregua di tutti gli oggetti, gli accessori e i soprammobili che riempiono la villa.
Per il resto, Priscilla è un film per nulla incisivo, un ritratto femminile debole tanto nel grado di agentività del personaggio quanto manchevole nel desiderio di esplorare più profondi sentimenti o discorsi.