Princess, la recensione
Al secondo film Roberto De Paolis si conferma un autore eccezionale capace di raccontare il nascere dei sentimenti con minuzia incredibile
La recensione di Princess, opera seconda di Roberto De Paolis presentata in apertura della sezione Orizzonti al Festival di Venezia
Ci vorranno però diverse giornate perché Princess tra clienti che la truffano e clienti che truffa lei, tra amiche che si fanno le treccine a vicenda, scherzi terribili, clienti ricchissimi, altri umili e un continuo incontrare in quel bosco accanto alla strada un uomo che con lei non vuole fare niente, si lasci convincere a fare un giro con lui, uno non finalizzato a “lavorare”. La grande idea di sceneggiatura è che anche noi ci mettiamo un po’ a capire che quel cliente è diverso dagli altri e che la loro interazione nasconde qualcosa di più. Ci vuole tanto ma Princess ha una capacità così alta di scrivere e poi mettere in scena dialoghi e interazioni che lo si guarderebbe all’infinito anche se la trama vera e propria non arrivasse mai.
Dentro questa grandissima energia di Glory Kevin si muovono tutti. Si muove Lino Musella, così intelligente da riuscire ad essere sempre il rovescio di quella medaglia, il suo opposto e farci così capire sottilmente che queste due persone possono completarsi, e si muove anche Roberto De Paolis, che gestisce tempi e sguardo in modo che ogni volta quell’energia possa suggerire un bisogno di affetto frustrato da una vita difficile oppure scaltrezza o ancora verso il finale un timore della felicità, quasi un’esitazione ad accettarla che commuove.
Peccato solo che un finale troppo ansioso di chiudere un cerchio sfrutti eccessivamente la cornice e metafora della favola, aggiungendo un livello di interpretazione tra il fantastico e il metaforico di cui forse il film non aveva bisogno ma che comunque non intacca la bellezza di Princess.