Primadonna, la recensione

La storia di Primadonna è la classica parabola di conquista di un diritto all'americana che però qui è ben sporcata dallo spirito italiano

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Primadonna, il film in sala dall'8 marzo

Non ci sono dubbi sulla direzione da cui proviene Primadonna, è un racconto all’americana di una storia molto italiana, quella della prima donna ad essersi ribellata (vincendo) al rituale del matrimonio riparatore, quindi alla violenza degli uomini che obbligano le donne a sposarli rapendole e poi proponendo il matrimonio riparatore dell’onore. Il fatto è avvenuto nel 1965 (quattro anni dopo Divorzio all’italiana!) e l’impostazione della storia è quella dei racconto del singolo contro la società e le convenzioni, una parabola di conquista di un diritto attraverso la dedizione, l’ostinazione e la forza personali. Ci sono i preti malvagi, la comunità che cospira, la prostituta di buon cuore, i poteri forti economici (cioè i ricchi del paese) che hanno di più e osteggiano il trionfo della giustizia ecc. ecc.

Quello che cambia e che rende tutto molto più nostro è semmai la lettura del presente. Ogni racconto del passato è fatto in funzione di una narrazione del presente e se nel cinema americano le storie di conquista di diritti hanno come sottotesto che tutto nella società può cambiare tramite l’ostinazione dei singoli, che l’eccezionalismo della popolazione americana e del suo sistema sta nel fatto che anche la corruzione o l’oscurantismo peggiori possono essere vinti dallo spirito indomabile di una persona o un gruppo, in Italia anche una vittoria ha il sapore della sconfitta. Primadonna racconta sì di un piccolo trionfo per gli standard dell’epoca ma fa molta attenzione a contaminarlo con l’amarezza che nulla cambi mai davvero, che una sentenza significhi poco. Non a caso poi molti dei termini, del linguaggio e delle accuse sono scritte e poste in modo da echeggiare nella testa dello spettatore polemiche contemporanee. Quello che ieri si voleva sconfiggere oggi è ancora vivo.

Se l’impostazione è a fuoco, meno lo è la messa in scena un po’ slavata e la ricostruzione d’epoca abbastanza ordinaria. Primadonna è più un film scritto correttamente che uno messo in scena con personalità, ricostruisce bene certi meccanismi (specialmente la maniera in cui il meccanismo del rapimento fosse così integrato da avere già scappatoie legali) ma poi si affida a immagini non proprio eccezionali, come il combattimento tra galli in un momento in cui gli uomini fanno squadra contro la donna. Soprattutto non volendo esagerare nel dipingere la sentenza finale come una vittoria, di fatto rifiuta la soddisfazione allo spettatore. Quando viene dichiarata la colpevolezza dei cattivi, non c’è vero senso del trionfo e vera liberazione della tensione accumulata, è poca, solo accennata. Che è la cosa più fastidiosa.

Il film deve quindi vivere di interpretazioni e spesso appigliarsi ai suoi attori con risultati altalenanti. Claudia Gusmano ha il personaggio più complicato, la protagonista, ne deve recitare prima la repressione silenziosa, poi la violenza subita e poi ad un certo punto l’assenza, il momento in cui maturare la più assurda delle decisioni: essere la prima a fare qualcosa che nessuno fa in un luogo in cui le convenzioni sono tutto. E non sempre questo riesce come il film spererebbe, non sempre cioè regge intere scene. È semmai Francesco Colella, con il personaggio più da cinema americano (l’avvocato anticonformista e fuori dagli schemi, outsider che aiuta un’altra outsider riconoscendosi come simili) che invece mostra un’intensità di peso, racconta con i gesti, gli sguardi e le intenzioni tutti i sentimenti legati alle scene che stiamo vedendo e trasmette quando deve tensione, empatia o dramma.

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