Prigione 77, la recensione

Rilanciando quanto fatto con La isla mínima, Alberto Rodriguez ricorre al genere per raccontare una pagina oscura della Storia della Spagna

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La nostra recensione di Prigione 77, dall'8 giugno al cinema

Si percepisce tanta umidità nelle anguste prigioni spagnole al centro di Prigione 77, tanta quanta emergeva dalle paludi dell’Andalusia di La isla mínima, precedente film di Alberto Rodriguez. Che si tratti di storie ambientate in grandi spazi aperti o rinchiuse tra quattro mura, l’effetto è sempre di un grande soffocamento: l'atmosfera è la rappresentazione di una situazione stagnante. Riprendendo le coordinate su cui si muoveva la sua opera precedente, il regista rilancia così le proprie ambizioni, e ancora una volta il risultato è notevole.

Nella Spagna di fine anni ’70, anni del passaggio dalla dittatura franchista alla democrazia, il giovane contabile Manuel (Miguel Herran) viene rinchiuso nel carcere di Barcellona per scontare una pena di 20 anni, reo di aver intascato una cifra pari a 1200 euro. Ai prigionieri politici viene concessa l’amnistia, negata invece a tutti gli altri detenuti. Insieme al suo compagno di cella Pino (Javier Gutiérrez) Manuel si unisce così al sindacato dei detenuti che chiede libertà per tutti.

Rodriguez nuovamente ricorre a un preciso e riconoscibile genere (il noir ne La isla, qui il dramma carcerario) per raccontare le più oscure pagine della Storia del proprio Paese. Assistiamo ai più classici passaggi del filone, come le angherie dei compagni e delle guardie, l’ebrezza della possibile fuga. Ma il racconto è concentrato soprattutto sulla privazione, la sofferenza fisica dei prigionieri, come in Hunger o nel recente Great Freedom. Il regista dunque gioca consapevolmente con una serie di elementi noti allo spettatore per dargli nuova linfa inserendoli in un contesto originale per il grande schermo.

In Prigione 77 la Storia non è più infatti solo un elemento latente che riaffiora ripetutamente, ma diventa motore stesso delle vicende. Emergono con prepotenza i recessi del Franchismo e le difficoltà della transizione a una nuova Costituzione, in una situazione che non sembra cambiare, ma anzi addirittura peggiorare. Il protagonista si ritrova a lottare per un ideale giusto in un microcosmo che appare ancora come il frutto di uno Stato autoritario, tra le angherie delle guardie carcerarie e l’indifferenza della burocrazia. È proprio la violenza il mezzo con cui Rodriguez porta avanti il suo discorso: quella perpetuata dagli ufficiali risulta molto più frequente e nociva di quella dei detenuti nelle prigioni. Tutte dinamiche che contribuiscono a creare un quadro paradossale, se si considera che la storia si svolge in una nascente democrazia.

A questi elementi Prigione 77 aggiunge inoltre un ottimo lavoro di regia, che sfrutta a pieno i propri mezzi. Rodriguez mette in scena immagini potenti che in pochi istanti trasmettono l’idea di fondo del film. Il soffocamento degli internati emerge dai primi piani, la claustrofobia delle celle è espressa dal buio che domina questi ambienti. La fissità della macchina da presa negli interni risalta dal contrasto con le ampie panoramiche delle poche scene in esterni. Ne viene fuori un thriller contratto, che mentre dovrebbe raccontare uno svolgimento progressivo, rivela in verità una struttura ricorsiva, conseguenza dell’ineluttabilità e dell’immutabilità della situazione. Se c’è speranza per il protagonista, non sembra essercene per la Nazione, in un finale tutt’altro che catartico.

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