Prey, la recensione

Pigro nell'impostare una storia che sia femminista e nel dialogare ma quasi perfetto nell'azione, Prey è uno dei migliori film del franchise

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Prey, in uscita su Disney+ il 5 agosto

“Perché vuoi cacciare?”“Perché voi tutti pensate che io non possa farlo!”. Siamo a questo livello di semplicità. Sono passati meno di 20 minuti dall’inizio di Prey e il tema che regge tutta la storia è stato dichiarato, così nessuno potrà dire di non averlo capito. È la storia di Naru, ragazza nativa americana che nella sua tribù non viene considerata una cacciatrice come del resto qualsiasi donna. Lei tuttavia è emancipata e vuole affermare il proprio diritto a diventare quel che desidera, ci vorrà l’arrivo di alieni predatori perché questo accada. Non c’è da farsi illusioni, le motivazioni non vanno oltre questo spunto a cui attinge qualunque film che oggi voglia fare del femminismo ma non voglia impegnarsi. La notizia è che tanto Prey ha dei dialoghi pietosi, quanto scrive bene l’azione!

Dan Trachtenberg, già regista di 10 Cloverfield Lane e del pilota The Boys, tiene i riferimenti alle questioni politiche contemporanee al minimo sindacale e così lo sviluppo delle relazioni tra Naru e gli altri maschi, non gli interessa e li marginalizza.

Quello che gli interessa è fare azione bene e ci riesce.

Ben presto infatti atterra l’astronave e un alieno di quelli della saga di Predator scende cominciando la routine di caccia (lupi, conigli, serpenti e orsi, principalmente). Naru è l’unica ad accorgersi che qualcosa non va, che c’è una presenza sconosciuta che massacra la fauna e ha impronte, sangue e dimensioni che non corrispondono a niente di quel che solitamente combattono. I maschi la prendono in giro. Il patriarcato non conosce confini.

Nonostante Prey sia un film con una fiducia esagerata nei suoi effetti digitali (gli animali sono tutti in computer grafica e si vede), quando entra nel vivo e mette la sua protagonista nella condizione di scappare, cercare di sopravvivere e ad un certo punto contrattaccare, trasformandosi da preda in predatore (esattamente come impone il modello aureo di Schwarzenegger e McTiernan), tutto gira benissimo. Trachtenberg ha un problema con i dialoghi perché quando questi scompaiono e c’è poco da parlare (di nuovo in omaggio al film originale) e molto da mostrare è quasi perfetto, usa le immagini e un montaggio asciuttissimo (specie per questo genere di film) per far capire a noi cosa comprenda Naru della natura del suo nemico. Non c’è trucco dell’arsenale del miglior cinema d’azione degli anni ’70, ’80 e ’90 che questo film non usi e non padroneggi, al tempo stesso adottando tempi, ritmi e soluzioni del cinema moderno.

Alla fine non sarà nemmeno questione di inventare molto, Prey nasce derivativo sia nello spunto che nei personaggi che infine nel sottogenere, ma di aver profondamente compreso i propri modelli (tra cui ad un certo punto spunta anche Apocalypto) e sapere sempre cosa conti di più e quanto il senso del pericolo percepito sia importante per la definizione della tenacia, audacia, coraggio e determinazione della sua protagonista. Che più delle frasi e degli svolgimenti abusati, è il vero messaggio politico (se proprio uno ce ne deve essere) del film. Non le dichiarazioni ma gli atteggiamenti.

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