Press Play, la recensione

Il tempo come in ogni storia d'amore che si rispetti è il cattivo contro il quale si batte Laura armata di un'audiocassetta

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Press Play, il film disponibile su Prime Video dal 16 Luglio

“Ancora non abbiamo scoperto il vero pieno potenziale della musica” viene detto ad un certo punto citando una frase di John Coltrane, e in effetti Press Play basa tutta la propria trama intorno ad un potere fantastico della musica. Ma senza che poi nel film conti qualcosa la colonna sonora. La storia è quella di Laura e Harrison, si conoscono, si innamorano e condividono la passione per la musica, vanno ai concerti e realizzano una compilation su un’audiocassetta (nonostante siamo ai giorni nostri). Lui poi muore in un’incidente e 4 anni dopo Laura, tornata in possesso di quell’audiocassetta, ascoltandola, viaggia indietro nel tempo. Regole: può stare nel passato solo il tempo di una canzone alla volta e solo in quel momento in cui i due hanno ascoltato quel brano, non può riavvolgere il nastro e quindi ha un numero limitato di viaggi, ognuno dei quali poi modifica il presente in cui ritorna.

Un po’ Ricomincio da capo (perché tenteranno varie volte in vari modi di cambiare il passato ed evitare che Harrison muoia), un po’ Ai confini della realtà (qualsiasi cosa facciano Harrison sembra condannato a morire e non c’è mai nessuna spiegazione) e un po’ Se mi lasci ti cancello (perché alla fine qualunque cosa accada comunque i due, finiscono per innamorarsi), Press Play suona abbastanza riuscito, anche in virtù di Clara Rugaard e Lewis Pullman, coppia di bellezze molto ordinarie, personaggi ben scritti e recitati con un pudore e un candore nel relazionarsi che sono molto efficaci e dolci. Di una semplicità quasi contagiosa in un film che poi ha il suo cuore altrove, nel modo in cui riesce a sfruttare la musica come espediente senza usare davvero le canzoni. I brani ci sono ma sono marginali, a volume basso e la loro presenza non è realmente utilizzata, non li ricordiamo, non sono sottolineati e nemmeno sono enfatizzati la prima volta che i due li sentono. Perché tutta la seconda parte del film, quella con i viaggi all’indietro, è un ripercorrere i fatti visti nella prima parte, ma il senso di madeleine delle canzoni non si concretizza perché queste le sentiamo a malapena.

Si può davvero fare un film in cui lavorare così tanto sulla capacità evocativa della musica di risvegliare fantasmi interiori senza davvero puntare sulla musica? Senza crederci per nulla? Si può, perché a ben vedere Press Play è una parabola non tanto sulla potenza della musica come vorrebbe far credere, ma una sulla potenza dei feticci. L’audiocassetta (tecnologia analogica che diventa subito anche sentimentale in epoca di immaterialità digitale) è l’oggetto potente, quello a cui sono collegate le sensazioni in un transfer che aiuta a veicolare l’idea che salvare quell’oggetto salverà anche quella cosa astratta che chiamiamo amore. L’oggetto da cercare, non perdere, aggiustare e curare come l’amore. La musica è quasi un pretesto quindi. Quello che Press Play ribadisce che riusciamo ad immaginare, parlare e raccontare il vero romanticismo e il vero amore solo localizzandoli nel nostro passato. Identifichiamo il sentimento quando è dietro di noi e ancora di più idealizziamo quello di una volta, per questa ragione chiediamo a degli oggetti d’epoca come un’audiocassetta, quelli che erano lì quando l’amore nelle persone era davvero forte, di traghettarlo nel presente per noi, di aiutarci a recuperarlo. Una volta erano i carillon a svolgere questa funzione nelle storie oggi sono le tecnologie analogiche, domani saranno le prime tecnologie digitali.

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