Prayers for the Stolen, la recensione

Tatiana Huezo con Prayers for the Stolen fa un film per esplorare, per osservare e soprattutto per ascoltare e farci ascoltare: con picchi di emotività e di grande cinema si manifesta piano piano, in un crescendo la cui apoteosi è forse frettolosa ma che regala un’intensità rara.

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La recensione di Prayers for the Stolen, su MUBI dal 29 aprile

Ana trattiene il respiro per non fare rumore. È il gioco di una bambina che, con un cambio di segno repentino che apre al drammatico, diventa presto un gioco di sopravvivenza: deve fare silenzio, nascosta sotto a una rete in giardino, perché gli uomini del cartello della droga non la trovino, rendendola l’ennesimo fantasma del villaggio. È su questi toni e questi respiri che racchiude il suo senso profondo Prayers for the Stolen di Tatiana Huezo,un film sensoriale, intenso e sorprendente, fatto di rumori e di suoni - più che di immagini - e che nell’esperienza terrorizzante di un ascolto in attesa del pericolo trova la sua schiacciante forza evocativa.

Libero adattamento del romanzo omonimo di Jennifer Clement, Prayers for the Stolen osserva la vita sospesa nel villaggio messicano di Guerrero dal punto di vista delle donne e delle bambine che lo abitano. Il terrore per ciò che non c’è ma potrebbe arrivare da un momento all’altro o, all’opposto, l’attesa per chi dovrebbe arrivare e invece non c’è mai - e in entrambi i casi si tratta di uomini, figure negative e assenti - le fa vivere sempre all’erta, ne disegna sul viso uno sguardo duro e nel corpo una fermezza statuaria, qualsiasi età abbiano. I pochi uomini che vediamo o sono anonimi o sono buoni ma inermi, come il maestro di scuola e l'amico di infanzia.

Proprio lo sguardo intenso e invalicabile è ciò che caratterizza la protagonista Ana, che da bambina ad adolescente seguiamo nel suo percorso di crescita (attraverso tre attrici: Ana Cristina, Ordóñez González e Mayra Membreño). La regista Tatiana Huezo attraverso Ana, le sue due amiche e sua madre (Mayra Batalla) racconta così l’ambiente che le circonda, non il contrario: il personaggio, costruito nei suoi piccoli gesti, in pochissime parole, è ciò che serve per illuminare di riflesso un’alterità nascosta e per questo ancora più spaventosa. Il cartello, un mondo maschile e violento, è qualcosa che non vediamo mai e quando lo vediamo è lontano - dentro furgoni scuri che sfrecciano - o incompleto, visto per scorci e frammenti attraverso il punto di vista di chi si nasconde.

I momenti più intensi di Prayers for the Stolen sono allora quelli in cui l’evocazione è al centro, in sequenze di vero e proprio cinema horror ma dal realismo più che marcato dove il suono - un fruscio, un cane che abbaia, una campana improvvisata, e pure l'esplosione in una cava - è l’indizio che qualcosa sta per cambiare o il modo per scandire il tempo che passa.

In questa terra di donne dove la femminilità è pericolosa Ana è costretta dalla madre a tenere i capelli corti: nel dolore ingenuo e capriccioso di quando si separa dai suoi lunghi capelli c’è in nuce tutto il percorso emotivo che seguirà, raccontato sempre in sottrazione, trattenuto all’inverosimile, e che la porta a vergognarsi del suo sesso, ad avere paura del suo corpo. In una sequenza di gioco didattico a scuola Tatiana Huezo ne racchiude con un semplice espediente desiderio, terrore e una dolcezza tragica, tra la normalità di un qualunque percorso di crescita e l’anormalità di una realtà violenta.

Tatiana Huezo con Prayers for the Stolen fa un film per esplorare, per osservare e soprattutto per ascoltare e farci ascoltare: con picchi di emotività e di grande cinema si manifesta piano piano, in un crescendo la cui apoteosi è forse frettolosa ma che regala un’intensità rara.

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