Poveri Ma Ricchi, la recensione

Il film più divertente della carriera di Fausto Brizzi è anche il suo primo remake. Con un lavoro grandioso sul cast Poveri Ma Ricchi vince la sua partita

Critico e giornalista cinematografico


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Fausto Brizzi dopo il disastro di Forever Young ha optato per la battaglia di Natale e si è armato del remake di un successo francese, Les Tuche, film basato su un’idea talmente banale e abusata, e così tanto bisognoso di cambiamenti per essere adattato, che si fatica a capire come mai ci sia stato bisogno di comprarne i diritti per il remake. Una famiglia di morti di fame di un paesino infame di provincia vince alla lotteria 100 milioni di euro e cambia vita, si trasferisce a Milano, comincia a spendere come non ci fosse un domani, sognando di comprarsi l’ingresso nella buona società. Se la premessa è molto simile (anche per certe inquadrature) all’originale, gli esiti sono molto diversi, soprattutto Brizzi e Martani benché scelgano di affidare la narrazione ad un insopportabile bambino-secchione che pare avere una dentiera, sono anche ragionevoli a sufficienza da comprendere che un film simile possa funzionare solo cucendo un vestito molto largo attorno agli attori e lasciando che ognuno se lo stringa da sè attorno al proprio corpo.

La vera notizia è però che in Poveri Ma Ricchi si ride e moltissimo, si ride di basso ventre e di testa. È un film comico dal tempismo impeccabile che sforna battute e situazioni esilaranti ad intervalli regolari come un metronomo. Il suo segreto sta in un lavoro sugli attori simile a quello che si faceva nelle grandi commedie popolari italiane degli anni ‘50, quelle in cui gli attori portavano in scena il proprio repertorio, e non a caso, proprio come in quei film, i personaggi che non funzionano per niente sono i figli. Se però De Sica fatica moltissimo a trasferire ad un popolano il suo repertorio di mosse, interiezioni e tormentoni maturato ed evoluto in anni di personaggi eleganti e sofisticati, la rediviva Anna Mazzamauro anima una nonna che conquista a gomitate un ruolo maggiore di quello che potrebbe avere in altri film simili, ricordando a tutti la differenza che faceva nei film con Villaggio.

È tuttavia Lucia Ocone la stella del film, l’attrice che dà realmente forma a Poveri Ma Ricchi e ne incarna meglio di tutti l’idea di fondo. La sua moglie disgraziata che diventa signora per bene senza dimenticare i modi rudi, è un gioiello di demonici dettagli e desideri popolani resi realtà. Ocone, in un ruolo che una volta sarebbe stato di Cinzia Leone, sembra essere l’unica capace di far ridere con ogni parte del corpo, conscia che ogni gesto, anche il più piccolo può animare una gag, può scandire un tempo comico e creare anche un minuscolo momento esilarante. Soprattutto non cade nella trappola di chi ha fatto moltissima televisione, non cerca il personaggio comico ma interpreta un ruolo divertente non solo per quel che dice ma per la persona che è. Le affidano una donna fissata con Al Bano e lei regala un Felicità da morire, le mettono accanto il cameriere di Ubaldo Pantani e dandogli uno schiaffo mette in scena la gag più divertente di tutto il film. Un trionfo.

L’unica nota stonata di questo film orientato sugli attori (che vanta anche una serie di cammeo da incorniciare) è Enrico Brignano, che vive una trama tutta sua (assente nell’originale), una storia d’amore quasi parallela alla trama originale e che sembra rifiutare i princìpi del film. Non sembra un miserabile poveraccio come gli altri all’inizio, non sembra un arricchito dopo la vincita, è invece sempre se stesso, sempre Brignano. Questo è più che sufficiente per qualche risata ma nuoce all’equilibrio generale di un film che marcia evidentemente ad un passo cui l’attore romano non è abituato e che non riesce a tenere. Perché mentre il suo personaggio cerca il colpo di fioretto, gli altri hanno già affondato da tempo, in ogni scena e abbondantemente; quando lui riesce a capitalizzare una risata gli altri ne hanno regalate già 10.

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