Povere creature!, la recensione | Festival di Venezia

Con Povere creature!, Lanthimos costruisce un esilarante e sontuoso romanzo di ri-formazione, supportato da un cast in stato di grazia

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Spoiler Alert

La recensione di Povere Creature!, il film di Yorgos Lanthimos in concorso al Festival di Venezia 2023

Un turbinio di chiffon e marmi, rutti e piscio, sacro e profano: questo - e tanto altro - è Povere creature!, delirio calibrato al millimetro di Yorgos Lanthimos, tornato a Venezia dopo la consacrazione ottenuta cinque anni fa con La Favorita. La storia, tratta dal romanzo dello scozzese Alasdair Gray, ruota (anzi, vortica) attorno alla creatura Bella (Emma Stone), il cui cadavere è stato rianimato - con metodi che lo spettatore scopre nel corso del film - dal deforme luminare God(win) Baxter (Willem Dafoe).

Eclettismo e originalità

Lanthimos si diverte a scucire e ricucire il romanzo d’origine, e la sua opera rifulge dello smalto di un umorismo tagliente e tartassante. L’assurda parabola di rinascita di Bella è un’odissea che attinge da tutto ma non ricalca nulla; c’è Frankenstein, ovviamente, ma c’è anche un po’ di My Fair Lady nel modo in cui Baxter e il suo timido, innamorato assistente Max (Ramy Youssef) educano il loro grazioso monstrum. C’è, ancora, Il ritratto di Dorian Gray nel modo in cui Bella resta inebriata dal fascino libertino di Duncan Wedderburn (un Mark Ruffalo genialmente farsesco).

Si potrebbe continuare a lungo, i riferimenti abbondano non solo dal punto di vista letterario ma anche estetico; salta all’occhio un debito visuale nei confronti del cinema di Terry Gilliam e della fotografia di Joel Peter Witkin, nonché una fascinazione palese per l’estetica fantastica di Georges Méliès e altri pionieri della settima arte. In effetti, Povere creature! è, anzitutto, un fantasy: lo è in virtù tanto degli alambicchi strampalati di Baxter quanto delle scenografie folli di Shona Heath e James Price, che immaginano Londra, Lisbona, Alessandria e Parigi inesistenti, come farebbe un bambino che ne ha solo sentito parlare. Come farebbe, in effetti, la neonata Bella, risorta a nuova vita con la mente fresca e curiosa di un’infante.

Significati e significanti

Il simbolismo fiorisce in questa storia di creature che si scoprono involontarie creatrici; Bella è infatti nata da sé stessa, in un gioco di metafore che amplificano il messaggio ultimo del film. Un messaggio che parla di emancipazione, certo, ma senza il peso del moralismo o di un femminismo da parata. Seppur nella piena (qualcuno dirà eccessiva) consapevolezza di sé, Lanthimos lascia da parte stendardi e prosopopee, rifuggendo la presunzione di salire in cattedra e accontentandosi di farci divertire nel modo più intelligente possibile.

A voler scavare sotto la scintillante superficie, Povere creature trabocca di allegorie, metafore e sottili parallelismi, fornendo basi solide a una struttura esilarante; a coronamento di un percorso costellato di focus psicologici di grande impatto, il regista greco si riconferma ritrattista sensibile, acuto osservatore dell’animo umano capace di mettere da parte i cliché più usurati. La femminilità - e, nello specifico, la sessualità - viene non solo esplorata senza preconcetti, ma esaltata con una limpidezza di sguardo di cui il cinema necessitava.

Demoni e dei

Torna, come in La Favorita, il tema della maternità negata, elaborato su corde inedite e originali, fuor da convenzioni ed eccessi melensi; se la regina Anna di Olivia Colman si struggeva in segreto per la perdita dei suoi innumerevoli figli, la Bella di Emma Stone elabora un lutto vissuto dalla sua precedente coscienza con una lucidità che non lascia spazio a dubbi melodrammatici triti e ritriti.

Seppur con qualche lungaggine nella parte centrale, Povere creature! catalizza l’attenzione dello spettatore con una precisione chirurgica, assurgendo a fiaba per adulti senza ombra di zavorra morale. Supportato dalla performance galvanizzata e liberatoria (per noi e per lei, supponiamo) di una Stone da cui ha ormai dimostrato di saper trarre il meglio, è forse con il God (!) di Dafoe che Lanthimos realizza la creatura più riuscita di questa parabola, in un’alternanza costante tra riso e pianto che ben esemplifica la ricchezza tematica della sua poetica di cineasta.

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