Posti in piedi in Paradiso - la recensione

Un dramma sociale, e generazionale, camuffato da commedia: uno dei migliori di Verdone. Finalmente un grande cineasta popolare italiano alle prese con il presente.

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L'Italia è al verde. Verdone lo sa. E lo applica alla sua ultima finta commedia che in realtà è uno dei drammi sociali più riusciti e intelligenti visti di recente al cinema.

Tre uomini e una casa. Falliti Ulisse Diamanti (Carlo Verdone), Fulvio Brignola (Pierfrancesco Favino) e Domenico Segato (Marco Giallini) lo sono per davvero. Un ex produttore musicale schiavo della nostalgia come l'Owen Wilson di Midnight in Paris proprietario di un negozio di memorabilia che non vende niente (Verdone), un ex imprenditore di successo adultero per vocazione (ha due famiglie) vittima della febbre del gioco (Giallini), un ex critico cinematografico di punta finito a scrivere di cronaca rosa su giornaletti simil-free press (Brignola). Tre Ex alla Brizzi? No. Tre Ex alla Loach.

Il primo conserva il cinturone di Jim Morrison come fosse l'ultima prova della grandezza di un tempo, il secondo si veste un po' “regimental” ma ha il calzino bucato, il terzo ha il cellulare di Gabriele Muccino perché “L'ho recensito tante volte in passato. Siamo amici”. Patetici.

Un sessantenne (Diamanti), un cinquantenne (Sagato), un quarantenne (Brignola). Storie d'amore disastrose e ancora economicamente costose alle spalle e un futuro esaltante: condividere in tre un appartamento fatiscente dove la metro passa ogni dieci minuti facendo tremare tutto come nei Blues Brothers. 250 euro a testa e passa la paura. “Una signora situazione” la descrive quel ciarlatano di Sagato. In realtà c'è solo un termine adatto ala circostanza: sopravvivenza. Ma lo sapete che gli interni scenograficamente scarni di questa “signora situazione” mi hanno ricordato tanto, tanto i film di Kaurismaki?

Ho adorato Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone. Finalmente un film italiano dove ho visto la difficoltà del presente, dove ho visto i protagonisti contare i soldi quasi a ogni scena, dove l'amicizia maschile non è scontata (i tre si stanno immediatamente sulle palle) ma il becero cameratismo virile scatta sempre quando si può prendere in giro una coatta con le mutande di fuori oppure quando si può esclamare a colazione: “Io questa me la sono fatta!” mentre tutto attorno va in miseria. Mi ricorda qualcosa: un ex Presidente del Consiglio. Posti in piedi in Paradiso è un film su tre miserabili ometti senza qualità, ma forse pure con qualche pregio, che si arrabbattano per capire quale sarà la loro nuova dimensione esistenziale da “neo single”.

E l'amore? C'è l'amore? Qua Verdone si supera. Quando temi, con l'ingresso in campo di Micaela Ramazzotti nei panni di una squinternata cardiologa fissata con Ulisse, che il regista di Un sacco bello cada vittima della malattia che colpì Woody Allen ormai parecchi anni fa (scritturare bellissime attrici molto più giovani di lui nei ruoli improbabili, e per loro mortificanti, di innamorate del protagonista decrepito), ecco invece la sorpresa. Ma non aggiungiamo altro. Il logorio della vita moderna, e del presente storico italiano, così ben rappresentato in Posti in piedi in Paradiso, si concretizza costantemente con piccoli incidenti fisici da slapstick: quando sta per scattare l'erotismo anche nella vita dei tre misarabili c'è sempre un rumore che dà fastidio (qualcuno, ad esempio, che mozzica brutalmente una zolletta di zucchero), uno strappo muscolare, un dito infilato nell'occhio, un letto che si sfascia... Tutti intelligenti escamotage verdoniani per deviare la concentrazione dei suoi protagonisti (soprattutto del suo Ulisse) verso un altro aspetto della loro esistenza che esplode nel finale dopo che un farsesco episodio di piccola criminalità ha portato i nostri tre derelitti verso la zona I soliti ignoti/Tower Heist. Micaela Ramazzotti, ancora in veste svampita, è deliziosa. Quando accenna uno strip sulle note di The Ghost Song dei Doors – occhio alla reazione di Ulisse: qui Verdone è raffinatissimo - è bella come la Kim Basinger di Nove settimane e mezzo.

Speranza per i tre? Assumersi le proprie responsabilità di genitori, placare l'ansia dell'autoaffermazione, avere fiducia nelle generazioni future. Ciò che mi ha colpito enormemente del film di Verdone è l'ammissione di una pesante sconfitta generazionale e l'evidente messaggio di SOS scritto nella bottiglia, che non si trova mai in altri film di simbolici cineasti italiani 60enni come lui (penso a Moretti, ad esempio): “Abbiamo sbagliato tutto, adesso tocca a voi, AIUTATECI”. L'ultima inquadratura, da questo punto di vista, è semplicemente sconvolgente e, non a caso, lontana geograficamente dal suolo italiano. E' forse da lì che la vita di Ulisse Diamanti tornerà a brillare.

La filmografia di Verdone emerge già ora e parecchio con questo emozionante ventiquattresimo lungometraggio. Tra i finti giovani Brizzi-Martani che affrontano la commedia sexy con il ciuccio in bocca, e il 3D finto, la favola di Natale flaccida e sovrappeso di Pieraccioni, il sequel mal scritto Benvenuti al Nord, i mostriciattoli ignobili di umanità e gusto Zalone e Soliti idioti e l'escapismo idiota di Immaturi, Verdone è un farmaco intelligente e un ritorno alla realtà. E non c'è molto da ridere.   

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