Possession – L’appartamento del diavolo: la recensione

Possession – L’appartamento del diavolo è un horror di tanta atmosfera e poca sostanza, con un finale che lascia un po' di amaro in bocca

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Bisogna approcciare la visione di Possession – L’appartamento del diavolo con lo spirito giusto se si vuole arrivare in fondo. Fuori tempo e a tratti fuori luogo, questo horror spagnolo di case infestate è una perfetta uscita estiva per riprendere confidenza con la sala e fare un paio di gradevoli salti sulla sedia: un film nel quale il terrore è alimentato a jump scare e rumori improvvisi, costruito su cliché vecchi come il genere ma messi in scena con perizia se non con brillantezza. Un’esperienza quasi rassicurante, che ripercorre vecchie strade senza troppa originalità e che probabilmente verrà ricordato più per il debutto cinematografico di Begoña Vargas che per l’ennesimo mostro dagli arti allungati interpretato da Javier Botet.

È un peccato perché all’inizio Possession – L’appartamento del diavolo (guarda il trailer) sembra poter prendere una direzione lievemente diversa da quella solitamente scelta per film di questo genere: invece della solita famiglia (o coppia) tra il benestante e il ricca sfondata che si trasferisce in un appartamento (o villa) di svariate centinaia di metri quadri abbiamo una famiglia operaia che arriva dalla provincia con pochi soldi in tasca e molte speranze. Siamo nel 1976 e il futuro è a Madrid, almeno stando a Manuel, il padre; purtroppo per la famiglia Jimenéz, l’angolo di Madrid che hanno scelto per ripartire è un vecchio appartamento stracolmo di inquietanti oggetti d’epoca, di quelli dove semplicemente aprire una porta o un armadio è sufficiente a far scattare un effetto sonoro improvviso e terrorizzante, e magari una rapida zoomata su una bambola con gli occhi vitrei.

Ampara

C’è una presenza in casa, e questo Albert Pintó lo mette in chiaro fin da subito, prima ancora dei titoli di testa; e per raccontarcela tira fuori tutti i trucchetti dal libro dei poltergeist, dalle luci che lampeggiano e si spengono nel momento peggiore alle voci che sussurrano nell’ombra. È tutto talmente scolastico che per la prima ora di film è difficile non annoiarsi, a meno di non perdersi nella contemplazione di certi dettagli estetici e in particolare di ammirare il set design e l’uso della luce (c’è sempre buio in quella casa, ma mai abbastanza da rendere la scena illeggibile). Ciascuno dei membri della famiglia ha i propri personali fantasmi che contribuiscono al clima di tensione, ma anche qui non si registrano spunti particolarmente interessanti, e quei pochi che potrebbero esserci vengono presto soffocati sotto l’ennesima inquadratura di una figura inquietante che attraversa lo schermo come un lampo.

Le cose migliorano man mano che il secondo atto avanza e la situazione si fa un po’ più chiara: Possession – L’appartamento del diavolo si toglie anche la soddisfazione di citare fonti imprevedibili (tra cui un racconto di Richard Matheson del quale non diremo il titolo per evitare spoiler), e nel momento in cui ai personaggi è permesso uscire di casa per esplorare il resto della città il film comincia finalmente a respirare. Purtroppo viene tutto sprecato con il terzo atto, che dà una sterzata netta e abbandona l’atmosfera costruita fin lì in favore di una svolta francamente esorcistica, esasperata e anche parecchio offensiva nei confronti di almeno due diverse categorie che, ancora una volta, non citeremo per non rovinare una delle poche sorprese che il film ci riserva.

Possession - L'appartamento del diavolo famiglia

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