Possession – L’appartamento del diavolo: la recensione
Possession – L’appartamento del diavolo è un horror di tanta atmosfera e poca sostanza, con un finale che lascia un po' di amaro in bocca
È un peccato perché all’inizio Possession – L’appartamento del diavolo (guarda il trailer) sembra poter prendere una direzione lievemente diversa da quella solitamente scelta per film di questo genere: invece della solita famiglia (o coppia) tra il benestante e il ricca sfondata che si trasferisce in un appartamento (o villa) di svariate centinaia di metri quadri abbiamo una famiglia operaia che arriva dalla provincia con pochi soldi in tasca e molte speranze. Siamo nel 1976 e il futuro è a Madrid, almeno stando a Manuel, il padre; purtroppo per la famiglia Jimenéz, l’angolo di Madrid che hanno scelto per ripartire è un vecchio appartamento stracolmo di inquietanti oggetti d’epoca, di quelli dove semplicemente aprire una porta o un armadio è sufficiente a far scattare un effetto sonoro improvviso e terrorizzante, e magari una rapida zoomata su una bambola con gli occhi vitrei.
C’è una presenza in casa, e questo Albert Pintó lo mette in chiaro fin da subito, prima ancora dei titoli di testa; e per raccontarcela tira fuori tutti i trucchetti dal libro dei poltergeist, dalle luci che lampeggiano e si spengono nel momento peggiore alle voci che sussurrano nell’ombra. È tutto talmente scolastico che per la prima ora di film è difficile non annoiarsi, a meno di non perdersi nella contemplazione di certi dettagli estetici e in particolare di ammirare il set design e l’uso della luce (c’è sempre buio in quella casa, ma mai abbastanza da rendere la scena illeggibile). Ciascuno dei membri della famiglia ha i propri personali fantasmi che contribuiscono al clima di tensione, ma anche qui non si registrano spunti particolarmente interessanti, e quei pochi che potrebbero esserci vengono presto soffocati sotto l’ennesima inquadratura di una figura inquietante che attraversa lo schermo come un lampo.