Pose (terza stagione): la recensione
Pose termina con la terza stagione: gli anni '90, la lotta all'AIDS, narrazione fittizia che si fa cronaca storica
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Pose è stata una serie importante sotto molti punti di vista, primo fra tutti il tema della rappresentazione. Non soltanto come perno dei temi centrali dello show, ma anche all'esterno, come veicolo per raccontare veri attori e attrici che tradizionalmente non trovano spazio sullo schermo. Legata ad una dimensione molto precisa, quella delle ballroom degli anni '80, la serie tv di FX ha cambiato tono nel corso degli anni, scivolando lentamente verso una rappresentazione sempre più drammatica dei fatti. La terza stagione della serie, l'ultima e la più breve, completa quel racconto di sopravvivenza e si colloca accanto ad altri grandi racconti del piccolo schermo dedicati al tema dell'AIDS. Anche se sarebbe ingiusto ridurre tutto Pose al solo racconto della malattia.
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Come il classico Angels in America, o il più recente It's a Sin, anche Pose è narrazione fittizia che si fa cronaca storica. Come in It's a Sin, l'accelerazione degli eventi e il passaggio da un anno al successivo, mostrato sullo schermo, porta con sé un'idea di fatalismo, l'idea che qualcosa dovrà cambiare, e non necessariamente per il meglio. Le condizioni di Pray Tell peggiorano, e questa è soprattutto la sua stagione, nel momento in cui la scrittura della serie decide di abbracciare un tono più melodrammatico. Non è più il Pose degli esordi, in cui l'idea di autodeterminarsi nella grande città attraverso le sfacciate esibizioni al locale poteva bastare a se stessa.
Eppure, proprio per la presenza di questa, ci sarà anche un invito a vivere, a cogliere i singoli attimi, a cercare la felicità. E sarà il caso di Angel, a cui la serie regala la serenità tanto cercata prima del lungo epilogo dolceamaro della serie.