Pose 1x01: la recensione

Il primo episodio di Pose tradisce l'obbligo di cliffhanger, confezionando un racconto che segue i punti cardine della narrazione tradizionale calandoli in un contesto inedito e affascinante

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FX
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Spoiler Alert
"Non c'è nulla di più tragico di una regina triste." E ce ne sono di regine tristi nel primo episodio di Pose, serie Fox incentrata sul rutilante mondo degli spettacoli drag a New York. Il caleidoscopico, corale pilota della stagione porta la firma del creatore dello show, il veterano Ryan Murphy che, a pochi mesi da American Crime Story: L'assassinio di Gianni Versace, si riconferma cantore degli oppressi, certo qui rappresentati in una veste più eroica e salvifica di quanto avvenuto nella crepuscolare biografia di Andrew Cunanan.

Epurata dagli elementi contestuali caratterizzanti, questa prima puntata potrebbe essere tranquillamente etichettata come il perfetto compendio di tutti i topos narrativi più tradizionali: abbiamo l'allieva Blanca (MJ Rodriguez) che si ribella alla maestra e madre putativa Elektra Abundance (Dominique Jackson) per fondare la propria "casata"; abbiamo la fanciullesca ingenuità della giovane Angel (Indya Moore), che s'innamora dell'uomo più sbagliato che potesse incontrare; abbiamo infine il diciassettenne Damon (Ryan Jamaal Swain), cacciato dalla propria famiglia e salvato - in tutti i modi in cui una persona può essere salvata, parafrasando Titanic - da Blanca.

Questi schemi narrativi, a metà tra fiaba e romanzo ottocentesco nella propria semplicità vagamente manicheista, assumono in Pose uno smalto inedito proprio grazie alla conturbante ambientazione in cui vengono calati: ecco quindi questi paralleli viaggi dell'eroe trovare ostacoli aggiornati alla loro pugna, dall'omofobia familiare e sociale allo stigma dell'HIV, il cui marchio si estende ben oltre l'élite dei benpensanti e va a contaminare, seppur addolcito dal velo di una compassionevole pietà, anche la comunità gay e trans.

Non c'è alcun colpo di scena nel pilota di Pose, e basterebbe già questo a decretarne l'originalità e il coraggio anticonformista rispetto a una collaudata tradizione seriale che impone agli show di catturare l'attenzione attraverso il cosa piuttosto che il come. Il più classico scontro tra fazioni si svolge a suon di battaglie tra houses, le nuove casate che si scontrano sul campo di battaglia dei club newyorkesi, popolate da valorosi cavalieri che indossano lustrini al posto delle cotte di maglia; allargando il quadro e allontanandosi dalle piste da ballo, diviene ben chiaro come la vera guerra sia però tra questo microcosmo e il mondo circostante che vi si oppone, rifiutandole non solo gli onori, ma anche il più basilare riconoscimento della dignità.

È un universo maschilista prima ancora che maschile, quello che si staglia imponente contro i protagonisti di Pose: un universo che, nell'ombra di quel manicheismo già prima sottolineato, fa dell'ambizioso yuppie Stan (Evan Peters) un dipendente nientemeno che di Donald Trump, la cui figura viene grottescamente rievocata dal dirigente cocainomane Matt Bromley (James Van Der Beek). La sua sniffata di fronte al neoassunto Stan, disgustosamente didascalica in qualsiasi altro contesto, è qui solo l'ennesima tessera riconoscibile di un rivisitato realismo magico che fa dell'eccesso la propria cifra stilistica.

Può bastare un contesto serialmente inedito a sorreggere una struttura narrativa tanto classica da perseguire la prevedibilità con la costanza di una fede religiosa? Alla luce di questa prima ora e un quarto di Pose, siamo portati a rispondere positivamente, in attesa che questa fiaba policroma germogli in poema epico.

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