Poltergeist, la recensione

Timoroso e incapace di creare paura, quindi successivamente di usarla per i propri fini, il nuovo Poltergeist è un blando e sciapo calco dell'originale

Critico e giornalista cinematografico


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Sbaglia, e molto, chi ritiene che un film di paura si giudichi da quanto riesce a terrorizzare, così come sbaglia chi ritiene che una commedia si giudichi unicamente da quanto faccia ridere, entrambi i generi che fanno più appello alla pancia dello spettatore dovrebbero, nel migliore dei casi, usare le emozioni che stimolano per arrivare ad altro. Al contrario è però anche vero che un film di paura così goffo e puerile da non riuscire a creare tensione mette subito in dubbio la sua ragion d'essere. Come un musical in cui si canti stonato Poltergeist, versione 2015, stecca tutte le note che dovrebbe centrare in un continuo muoversi impacciato tra stereotipi del cinema dell'orrore, calco insipido dell'originale e un incredibile senso d'inadeguatezza rispetto alla propria missione.

L'obiettivo di Gil Kenan sembra voler essere stato un miscuglio tra una filologia del primo film (ovvero la scrittura di Spielberg attenta alle psicologie infantili degli anni d'oro della Amblin) e la tendenza modernissima dell'horror a chiudersi dentro le case (almeno da quando Jason Blum con la sua casa di produzione ha cambiato tutte le regole del cinema di paura a colpi di film "casalinghi" che costano niente e incassano tanto), rimestando nel mondo parallelo all'interno della dimora come già visto in Insidious. Dunque il nuovo Poltergeist sembra fotografato con i toni e la temperatura dei colori del cinema anni '80 (l'effetto speciale della luce che si allontana dalle lampadine sembra uscito da Explorers), mette al centro i due fratelli minori e si concentra molto sul trio di figli più che sulla maledizione. Quel che però sbaglia completamente è il contesto spaventoso. Non solo abusa delle figure più usurate (il pupazzo a forma di clown!) ma non riesce nemmeno a mettere in scena l'abc della tensione con efficacia.

Sarebbe molto facile dare la colpa di tutto ciò alla scelta del regista, un professionista che proviene dai cartoni animati, sembra però che proprio in tutto il progetto mancasse una visione dell'orrore, un'idea fondamentale su cosa il film voglia essere. Originale per certi versi, Poltergeist si impegna in tutto ciò che non riguarda la paura, quando tocca spaventare è a disagio e in questa maniera non riesce mai ad usarla ovvero a "farci qualcosa". Quel che Tobe Hooper faceva nel primo film era un'operazione complicatissima sia per toni (la contaminazione ironica era fondamentale e perfettamente integrata con la paura) che per gioco con le tecnologie.

Poltergeist del 1982 era il primo film a cominciare ad elaborare una fobia degli apparecchi tecnologici, tendenza che sarebbe poi arrivata ai massimi livelli con il j-horror di fine anni '90 ma che nasce tutta lì, con quei televisori malefici, mezzi di comunicazione per immagini che trasmettono il demoniaco, porte verso altre dimensioni oscure, guardati con terrore dai parenti della rapita come gli spettatori guardano spaventati il grande schermo del cinema che assorbe il loro sguardo.
Gil Kenan replica quasi pedissequamente tutto ciò riducendo solo lo spessore dei monitor senza fare nessuno sforzo di aggiornamento concettuale e alla fine non porta a casa niente, solo velleità.

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