Poltergeist, la recensione
Timoroso e incapace di creare paura, quindi successivamente di usarla per i propri fini, il nuovo Poltergeist è un blando e sciapo calco dell'originale
L'obiettivo di Gil Kenan sembra voler essere stato un miscuglio tra una filologia del primo film (ovvero la scrittura di Spielberg attenta alle psicologie infantili degli anni d'oro della Amblin) e la tendenza modernissima dell'horror a chiudersi dentro le case (almeno da quando Jason Blum con la sua casa di produzione ha cambiato tutte le regole del cinema di paura a colpi di film "casalinghi" che costano niente e incassano tanto), rimestando nel mondo parallelo all'interno della dimora come già visto in Insidious. Dunque il nuovo Poltergeist sembra fotografato con i toni e la temperatura dei colori del cinema anni '80 (l'effetto speciale della luce che si allontana dalle lampadine sembra uscito da Explorers), mette al centro i due fratelli minori e si concentra molto sul trio di figli più che sulla maledizione. Quel che però sbaglia completamente è il contesto spaventoso. Non solo abusa delle figure più usurate (il pupazzo a forma di clown!) ma non riesce nemmeno a mettere in scena l'abc della tensione con efficacia.
Poltergeist del 1982 era il primo film a cominciare ad elaborare una fobia degli apparecchi tecnologici, tendenza che sarebbe poi arrivata ai massimi livelli con il j-horror di fine anni '90 ma che nasce tutta lì, con quei televisori malefici, mezzi di comunicazione per immagini che trasmettono il demoniaco, porte verso altre dimensioni oscure, guardati con terrore dai parenti della rapita come gli spettatori guardano spaventati il grande schermo del cinema che assorbe il loro sguardo.
Gil Kenan replica quasi pedissequamente tutto ciò riducendo solo lo spessore dei monitor senza fare nessuno sforzo di aggiornamento concettuale e alla fine non porta a casa niente, solo velleità.