Polaroid, la recensione
Cialtrone e determinato a copiare tutto, Polaroid è il trionfo di tutte le convenzioni dello slasher e dell'horror demoniaco
Il presupposto è abbastanza ridicolo: c’è una macchinetta polaroid che scatta foto maledette, chi è ritratto viene ucciso da un demone che annuncia la sua presenza nelle stesse foto nella forma di un’ombra. È ridicolo tanto quanto lo era il presupposto del film che ha fondato questo filone tecnologico/maligno, cioè The Ring, ma a differenza di quel film (e quel remake americano) questo non usa questo spunto assurdo per creare un grande film, per fondare una sua mitologia o anche solo (nel piccolo) per poter inventare foto paurose. Assolutamente. Addirittura le polaroid scattate nel film non sembrano davvero polaroid, cioè non hanno quel look, quei colori e quei toni a bassa risoluzione e con i colori non perfetti.
Così scontato è il tutto che a Polaroid non rimane come unica possibilità di paura l’uso del jumpscare. Eppure alla fine il tutto è così cialtrone che si fa fatica a volergli male. Pur essendo evidente la sua natura scadente e insalvabile, è così mal recitato e teneramente convinto di poter davvero essere un film dell’orrore ricalcando ogni singola idea e trovata di sceneggiatura già vista e canonizzata dal genere, che stringe il cuore e fa comparire un sorriso.