Polaroid, la recensione
Cialtrone e determinato a copiare tutto, Polaroid è il trionfo di tutte le convenzioni dello slasher e dell'horror demoniaco
Il presupposto è abbastanza ridicolo: c’è una macchinetta polaroid che scatta foto maledette, chi è ritratto viene ucciso da un demone che annuncia la sua presenza nelle stesse foto nella forma di un’ombra. È ridicolo tanto quanto lo era il presupposto del film che ha fondato questo filone tecnologico/maligno, cioè The Ring, ma a differenza di quel film (e quel remake americano) questo non usa questo spunto assurdo per creare un grande film, per fondare una sua mitologia o anche solo (nel piccolo) per poter inventare foto paurose. Assolutamente. Addirittura le polaroid scattate nel film non sembrano davvero polaroid, cioè non hanno quel look, quei colori e quei toni a bassa risoluzione e con i colori non perfetti.
La polaroid, è abbastanza evidente, non è come si poteva sperare un pretesto per creare un look pauroso originale ma un piccolo elemento di richiamo per un pubblico potenzialmente hipster. Rinchiudere la maledizione in oggetti di uso quotidiano è un trend che il cinema americano cavalca da inizio anni 2000 ma la maniera in cui lo fa qui è adattando malissimo le convenzioni peggiori. La maledizione sarà ricercata online quindi, bisognerà risalire ai possessori originali e ad omicidi compiuti intorno all’oggetto e conterrà in un certo senso il segreto per combattere la minaccia in lungo, pessimo, scontro.Così scontato è il tutto che a Polaroid non rimane come unica possibilità di paura l’uso del jumpscare. Eppure alla fine il tutto è così cialtrone che si fa fatica a volergli male. Pur essendo evidente la sua natura scadente e insalvabile, è così mal recitato e teneramente convinto di poter davvero essere un film dell’orrore ricalcando ogni singola idea e trovata di sceneggiatura già vista e canonizzata dal genere, che stringe il cuore e fa comparire un sorriso.