Point Break, la recensione

È facile immaginare che un remake di Point Break senza Kathryn Bigelow non abbia senso, lo stesso questa versione va più in là di qualsiasi sottovalutazione

Critico e giornalista cinematografico


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Nel nuovo Point Break Johnny Utah è chiamato solo Utah, nomignolo che non è dovuto alla sua provenienza, ci viene spiegato, ma all’assonanza con YouTube luogo in cui è diventato famoso con i suoi video estremi. Da questo dettaglio, rivelato ben presto nel film, si può capire molto bene l’idea dietro al film: prendere nominalmente ciò che era presente nell’originale, distorcerlo assecondando l’idea di modernismo più semplice e diretta o i riferimenti alle mode contemporanee e poi orientare tutto verso gli sport estremi. Dal fatto che, più avanti nel film, Utah decida di “tornare a casa” e nell’inquadratura successiva una didascalia ci informi che quella casa dove è andato sono i monti dello Utah (!??!), si può invece bene capire la coerenza e cura con cui tutto è stato realizzato.

È solo un esempio dei molti possibili che mostra quanto poco Point Break abbia richiesto in fase di scrittura, quanto non sia stata cura di nessuno mettere ordine, controllare o anche solo curare a dovere la narrazione, per non dire i personaggi.

La storia inizialmente sembra la stessa: un gruppo di rapinatori con maschere dei presidenti pare inarrestabile, solo che stavolta portano a termine i loro colpi attraverso stunt estremi, motivo per il quale se ne interessa la giovane recluta dell’FBI che viene da quelle discipline. Da lì il film parte per la tangente, il crimine sostanzialmente scompare (per tornare alla fine come deus ex machina) e la trama gira più intorno a delle mitologiche 8 prove estreme da portare a termine, un tour de force che nessuno ha mai fatto ma ci viene mostrato come poi non così difficile.

Quel che accade fin dall’incidente iniziale, in cui senza un perché il protagonista non aiuta l’amico a non cadere in seguito ad uno stunt inutilmente più rischioso di tutto quel che poi si vedrà nel film e totalmente immotivato, ma cerca di salvarlo assieme a tutta la moto, è che Point Break avanza usando la sceneggiatura per motivare le sue scene e non viceversa: ci sono party su un transatlantico, ci sono i suddetti sport estremi (spesso bene ripresi, ma non sempre), ci sono alcuni inseguimenti all’acqua di rose e le scene d’amore ma non sono figli dell’intreccio, è semmai questo che viene piegato all’inverosimile per motivarle.

Bisognava capirlo dallo spirito che ha animato il casting, dalla presenza minima di Ray Winstone e del suo Pappas (non molto diverso da quello originale di Gary Busey ma semplicemente una meteora nel film di cui si fatica a comprendere la ragion d’esistere) o dalla presenza massiccia di donne femminili invece che androgine che l’idea era “sfruttare” Point Break e non “rifare” Point Break, che della dipendenza da adrenalina, di una forma complessa di sentimentalismo maschile, dello stordimento nell’avvicinarsi alla morte non importava nulla a nessuno della produzione.

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