Pleasure, la recensione
L'avventura nel porno americano di una ragazza svedese diventa uno sguardo di grande originalità sul funzionamento della società americana
La recensione di Pleasure, in uscita su MUBI il 17 giugno
Certo Pleasure non è impermeabile all’intellettualismo del controllo dello sguardo. La sua protagonista sembra determinatissima a sfondare nel porno ma da subito ha grossi problemi con gli obiettivi che non sono comandati da lei. Si fotografa e si filma per i social senza problemi ma ogni scena porno è filmata (dalla regista, Ninja Thyberg) facendo molta molta attenzione a mostrare l’obiettivo come un mostro, qualcosa di cui avere paura. Lungo tutto il film questa sarà sempre una questione di sguardo, le riprese saranno buone quando al timone c’è una donna e un inferno quando a controllare lo sguardo è un uomo. Che è parte dello schematismo del film. Di buono c’è però che Pleasure stesso dimostra di sapere bene come filmare la nudità, così che la sua protagonista come sia mai un mezzo per scatenare eccitazione: nega la nudità quando si girano scene pornografiche e la mostra, totalmente desessualizzata in scene ordinarie, come quando si lava.
Il film purtroppo sa anche farsi più pedante e un po’ didascalico quando si sente in dovere di spiegare tutto. Quando fa indossare un pene di plastica alla sua protagonista e la mostra come finalmente potente, quando usa musica sacra per un finale un po’ enfatico, quando fa fare una fine peggiore all’amica che non si rassegna ad abbassare la testa mentre lei perde la sua anima e trova il successo. Insomma quando cavalca i precetti più banali invece di creare un ragionamento più complesso. Perché di tutto il film ciò che rimane maggiormente sono ad esempio i momenti in cui sa creare senza dirlo apertamente un parallelo tra ciò che il corpo subisce, per finta, e come questo giochi con la testa della protagonista, come ogni pratica sessuale (e quindi ogni maltrattamento di ogni tipo) subita oppure accolta cambia la posizione e il potere di chi è coinvolto.