Pleasure, la recensione

L'avventura nel porno americano di una ragazza svedese diventa uno sguardo di grande originalità sul funzionamento della società americana

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Pleasure, in uscita su MUBI il 17 giugno

I film che parlano di pornografia lo fanno per mostrare come lì, in quel mondo, si trovi l’esaltazione della scopofilia, della passione e del godimento attraverso la visione, atti reali ed eccitazioni finte che scatenano sensazioni reali una volta guardati. Pleasure non è estraneo a questo solito ragionamento ma per fortuna ha anche un’ambizione più grande e interessante, cioè quella di parlare della maniera in cui le donne navigano il mondo (e di parlare di America) attraverso la metafora di una ragazza straniera che desidera sfondare nel porno statunitense. È una struttura vecchissima, quella della giovane che vuole farsi strada nello spietato mondo dello spettacolo e per farlo deve perdere la propria innocenza, ma nel mondo del porno di Pleasure tutto è una questione fisica. Può sembrare banale affermare che il porno è una questione di corpi, ma molto meno lo è se questa è una maniera di parlare di società, cioè se in realtà si sta dicendo che come il porno anche tutta la società americana è una questione di corpi e che quella chiave di lettura è ottima per capire una società.

Certo Pleasure non è impermeabile all’intellettualismo del controllo dello sguardo. La sua protagonista sembra determinatissima a sfondare nel porno ma da subito ha grossi problemi con gli obiettivi che non sono comandati da lei. Si fotografa e si filma per i social senza problemi ma ogni scena porno è filmata (dalla regista, Ninja Thyberg) facendo molta molta attenzione a mostrare l’obiettivo come un mostro, qualcosa di cui avere paura. Lungo tutto il film questa sarà sempre una questione di sguardo, le riprese saranno buone quando al timone c’è una donna e un inferno quando a controllare lo sguardo è un uomo. Che è parte dello schematismo del film. Di buono c’è però che Pleasure stesso dimostra di sapere bene come filmare la nudità, così che la sua protagonista come sia mai un mezzo per scatenare eccitazione: nega la nudità quando si girano scene pornografiche e la mostra, totalmente desessualizzata in scene ordinarie, come quando si lava.

Intorno a lei quest’industria del porno americano vista da una svedese sembra una high school da teen movie, con le ragazze popolari, le gerarchie sociali, le amiche outsider e una piccola comunità in cui inserirsi, è una bolla in cui l’etica del capitalismo spinto prende direzioni fisiche, comanda che il corpo vada brutalizzato e consumato (e lei è la prima volerlo, a spingere per pratiche BDSM nel momento in cui capisce che così può emergere più in fretta e farsi notare). È questo il senso in cui più guardiamo il film più riconosciamo le contraddizioni statunitensi (e Thyberg bada bene a mostrare la sua svedese come un alieno) una società in cui, al pari dell'industria del porno, alle donne viene chiesto ogni genere di sacrificio mentre sono gestite, riprese e tenuta a bada da uomini, anche quando loro sarebbero le star, 

Il film purtroppo sa anche farsi più pedante e un po’ didascalico quando si sente in dovere di spiegare tutto. Quando fa indossare un pene di plastica alla sua protagonista e la mostra come finalmente potente, quando usa musica sacra per un finale un po’ enfatico, quando fa fare una fine peggiore all’amica che non si rassegna ad abbassare la testa mentre lei perde la sua anima e trova il successo. Insomma quando cavalca i precetti più banali invece di creare un ragionamento più complesso. Perché di tutto il film ciò che rimane maggiormente sono ad esempio i momenti in cui sa creare senza dirlo apertamente un parallelo tra ciò che il corpo subisce, per finta, e come questo giochi con la testa della protagonista, come ogni pratica sessuale (e quindi ogni maltrattamento di ogni tipo) subita oppure accolta cambia la posizione e il potere di chi è coinvolto.

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