Pixels, la recensione
Animato da due spinte diverse, una verso l'avventura e l'altra verso la comicità di Sandler, Pixels non trova un equilibrio e sceglie la strada peggiore
Inutile dire che tra le due si fa per tutto il tempo il tifo per la seconda, cioè per la vittoria di un'idea di cinema un po' più pragmatica di quella molto autoreferenziale di Adam Sandler, in cui sembra che le gag (sempre della medesima tipologia) si ripetano costantemente in un continuo ripassare i medesimi luoghi comuni e in cui l'azione segue la comicità, non viceversa. Alla fine vincerà Adam Sandler, affondando quello che poteva essere una curiosa variazione sul tema di Ghostbusters, i 4 eroi inusuali che salvano una città.
Il problema con Sandler è che nella maniera in cui prende in giro ciò che lo circonda per metterne in scena le contraddizioni c'è moltissimo disprezzo. Disprezzo per chi è più giovane, disprezzo per chi non è americano, disprezzo per chi non è come lui. Finchè era molto giovane questo disprezzo generale colpiva anche i potenti e aveva un senso, dava un andamento caotico e ribelle alle sue storie perchè distruggeva le strutture incancrenite (la scuola, il mondo elegante del golf) ed era davvero divertente. Non a caso forse l'idea comica migliore del film è che uno degli amici della compagnia (Kevin James) sia presidente degli Stati Uniti. Ma in definitiva oggi Adam Sandler è solo un vecchio conservatore.
Indegno di comparire anche all'interno della filmografia sui videogame, tanto non sembra comprenderne il punto finale, i pregi e l'interesse della materia, Pixels beneficia unicamente delle grandi idee visive del video originale che ha dato origine a tutto: Pixels di Patrick Jean.