Il più bel secolo della mia vita, la recensione

Lungo Il più bel secolo della mia vita è sempre più evidente che questo sia più un film di Castellitto che uno di Lundini

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Il più bel secolo della mia vita, il film con Valerio Lundini e Sergio Castellitto in uscita il 7 settembre al cinema

Le premesse non sono delle migliori. Il più bel secolo della mia vita propone già nei primi minuti le consuete musiche allucinanti delle commedie garbate italiane, accompagnate da droni. È una promessa di ordinarietà che ben si accoppia con la scelta di uno humor a bassa intensità, utile più che altro a garantire il tono leggero su una vicenda che gira intorno a orfani e morte, scritta e girata per assomigliare al cinema italiano che già conosciamo. Niente di male in sé, perché musiche e droni a parte è un film ben eseguito. Ma anche niente di sorprendente.

Questo è un film più vicino al bioritmo delle commedie migliori con Sergio Castellitto, quelle in cui è l’aguzzino comico di un povero Cristo. Stavolta truccato da centenario mette in croce il ragazzo che lo fa uscire dalla casa di riposo con suore in cui risiede, per portarlo a una celebrazione per i suoi 100 anni. I due sono entrambi orfani, il ragazzo lavora per un’associazione che si batte per il diritto degli orfani di venire a sapere chi siano i loro genitori, e questo centenario è un’occasione per fare pressione politica. Peccato che all’uomo, anziano e di un’altra epoca, non interessi minimamente.

È ovviamente uno scontro di due epoche, che però con una certa intelligenza (il copione è scritto da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, due dei migliori sceneggiatori italiani di crimine da qualche tempo passati alla commedia, e del regista Alessandro Bardani) non prende la solita forma dello scontro tra costumi, oggettistica o peggio “vecchi valori contro il loro tramonto in questo presente derelitto”. Il centenario e il trentenne si differenziano per la maniera in cui si relazionano agli altri, come sanno entrare in contatto con le persone, ognuno espressione del proprio tempo, nessuno dei due da una parte interamente giusta. Peccato solo che la traccia iniziale di un viaggio verso il piacere, passando dalle suore ai nightclub, non sia seguita fino in fondo ma solo accennata. E in questo contesto perfetto per Sergio Castellitto non si muove male Valerio Lundini. Non subisce e basta (come poteva capitare) ma dimostra di saper lavorare su un’evoluzione, subendo espressivamente e nel frattempo facendo passare anche piccoli pensieri che il personaggio vorrebbe nascondere.

Certo non è propriamente il tipo di film che ci si potrebbe aspettare dall’esordio (come attore, non come autore) di Valerio Lundini in un film e questo nonostante quello che reciti sia un personaggio in armonia con quello che lungo gli anni ha costruito per sé. Una versione remissiva dell’italiano medio in tutto (nel reddito, nella cultura, nei desideri, nelle paure), dalla scarsa cognizione di quel che dice e che si rifugia in un lessico di plastica, sicuro e pieno di luoghi comuni retorici, per evitare di prendere posizione e al tempo stesso accreditarsi agli occhi degli altri. Quello che manca al personaggio è la seconda parte del lundinismo, quella più comica, cioè la maniera in cui, a fronte di questa ricerca di sicurezza e equilibrio nel parlare, poi continuamente si tradisca e lasci trapelare pensieri aberranti. Ma del resto non è questo il film per un simile personaggio. Questo è un film retto dalla caratterizzazione, come sempre precisissima e molto originale, che Sergio Castellitto fa di un uomo nato nel 1923 e passato attraverso il novecento.

Continua a leggere su BadTaste