Piove, la recensione

Cinema horror con la schiena dritta, le idee salde ma anche una fatica ingiusta ad arrivarci. Tocca volergli bene subito e perdonare molto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Piove, il nuovo film di Paolo Strippoli, presentato alla Festa del cinema di Roma

Bisogna nuotare controcorrente per riuscire a godersi Piove. Nuotare innanzitutto contro una prima parte eccessivamente tirata per le lunghe che non ha un suo mordente ma è pura preparazione alla seconda, che giace languida troppo a lungo ed è piena di personaggi enigmatici senza fascino (quando va bene) o insopportabili (quando va male); poi occorre nuotare contro la corrente di una produzione insufficiente per le ambizione fantastiche, cosa che si nota un po’ ovunque ma soprattutto negli effetti visivi e nella loro scarsa integrazione con il resto dell’immagine.

Superato tutto questo e rimasti a galla, nonostante i colpi presi in faccia da gigantesche onde generate dalla recitazione appena sufficiente degli attori, è possibile finalmente godere di Piove, che in realtà le sue idee e il suo coraggio li ha. La storia è quella di un vapore che esce dai tombini, un male generico che emerge con la pioggia e se inalato trasforma le persone. Non importa cosa sia e da dove venga, importa cosa comporti e come si faccia strada in un condominio, nelle sue storie e nei suoi appartamenti, specialmente in quello di una famiglia che ha da poco perso la madre. La possessione del vapore fa vedere traumi e fuoriuscire demoni interiori spingendo alla violenza efferata, ognuno assecondando il proprio rimorso.

Quindi quando finalmente Piove entra nel vivo comincia a scambiare colpi non male con il senso di colpa e il desiderio di redenzione che prendono le strade sbagliate, con il confrontarsi di ognuno con un rimosso pesante e lo fa con orrore e violenza meschina ma anche una buona capacità di immagine momenti visivamente forti. Le stesse persone che abbiamo visto nella prima parte tornano nella seconda, possedute, per compiere il loro destino o scontare la colpa che fin dall’inizio ci sembrava giusta per loro. Così più ci si avvicina alla fine più è chiaro che Piove vuole parlare delle emozioni represse ma la cattiveria con la quale lo fa, senza tirare mai indietro la mano e anzi puntando su una buona efferatezza e un certo piacere nell’andare a fondo, gli danno un senso. Non è più un'operazione ridanciana con idee serie come A Classic Horror Story che Strippoli aveva co-diretto con Roberto De Feo, ma una che rischia di più nel temibile territorio del serio.

Se infatti i morti viventi di Romero rappresentano ciò che siamo diventati, la parte lobotomizzata dell’umanità che smette di vivere e si fa dirigere dalle convenzioni della società del consumo, dello spettacolo e della persuasione, il vapore di Piove è la possessione dei nostri demoni, siamo noi che possediamo noi stessi, che risvegliamo il rimosso impossibile da affrontare, i desideri repressi ogni giorno, l'odio tenuto a bada e il livore solitamente controllato e ora incontrollato. Un condominio di plagiati dal fumo è solo un posto in cui ognuno dà seguito con le azioni al livore che già ha dentro e che di giorno in giorno è stato coltivato dal mutismo e da mille confronti evitati fino a fiorire nella violenza. Ma questo sarebbe banale se non fosse raccontato con vera violenza e se non trovasse ad un certo punto un’immagine bellissima, fatta di volti che "perdono acqua" dai bulbi in una maniera sorprendente, quasi marcia. È un momento per certi versi anche anticipabile, atteso e forse inevitabile, ma crea una catarsi reale.

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