Pinocchio (2022), la recensione

Accentuando la componente più cupa del classico d'animazione, e facendo piccoli ma sostanziali cambiamenti, il Pinocchio di Robert Zemeckis riesce a trovare una propria ragion d'essere

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La nostra recensione di Pinocchio (2022), disponibile dall'8 settembre su Disney+

Alla notizia che, nel corso del 2022, sarebbero uscite due nuove e diverse versioni di Pinocchio, questa targata Disney e quella di Guillermo del Toro che arriverà su Netflix alla fine dell’anno, era scontato immaginarle in perfetta contrapposizione: la prima più per famiglie, come si addice alla casa di Topolino, la seconda più dark, in linea con la poetica del regista messicano. Per fare un effettivo confronto attendiamo di visionarle entrambe, ma, avendo visto la prima, possiamo dire che la sorpresa sta in quanto questa si riveli assai più cupa e meno semplice del previsto, riuscendo a non risultare una mera riproposizione del classico animato.

Il Pinocchio del 2022 in versione live action firmato Robert Zemeckis guarda infatti direttamente al film del 1940, riproponendo la struttura narrativa di base, alcuni personaggi assenti in Collodi (il gatto Figaro il pesce Cleo) ma allo stesso tempo portando alcuni cambiamenti sostanziali. Già nell’incipit partiamo nuovamente dalle pagine del romanzo e veniamo introdotti nella storia dalla voce del grillo parlante che si presenta come narratore; ma subito avviene uno scarto che mette in discussione il significato del "C’era una volta". Il Geppetto di Tom Hanks è un maestro nella sua arte (i baffi bianchi e i capelli arruffati lo avvicinano visivamente a una sorta di Einstein), fabbricatore di tanti orologi a cucù, ma la trama ne evidenzia da subito la stanchezza, la solitudine, il suo preferire parlare con gli animali domestici piuttosto che con gli umani, in sintonia con quello ritratto da Roberto Benigni nel Pinocchio di Garrone. La colonna sonora di Alan Silvestri sostituisce all’allegria del film originale un’atmosfera malinconica e onirica, mentre la fotografia gioca su tonalità autunnali, tra ombre e la scarsa luce che proviene dal fuoco accesso del camino. Così se anche riproporrà certe dinamiche splastick e i momenti cantanti del film animato, questo Pinocchio le connoterà sempre con una forte malinconia, veicolata anche da un Tom Hanks che riesce a infondere la giusta tenerezza al personaggio.

Scopriamo poi che, novità assoluta, Geppetto ha perso moglie e figlio e cerca in Pinocchio proprio un surrogato del bambino. Al di là di certe battute e di certi easter egg, l’ammodernamento del testo, la sua aderenza ad una certa recente filosofia Disney, sembra avvenire soprattutto per come in questo modo il concetto di famiglia, l’importanza della sua unione, venga ribadito più volte. Così come è sottolineato il carattere di "diversità" e di conseguenza quello di outsider che lega un personaggio inedito, una ragazza del circo di Mangiafuoco, allo stesso Pinocchio, che, a differenza del testo originale, non viene neanche ammesso a scuola, perché il  maestro non accetta bambini di legno. Del resto, anche la scelta di far interpretare la Fata Turchina a Cynthia Erivo, sembra essere legata alla necessità di perseguire un’inclusività che qui appare fine a sé stessa. Questa è sicuramente la parte del film che funziona meno, ma per fortuna è solo latente, e dopo un inizio accattivante ma non del tutto convincente la storia prende il volo nella seconda parte.

Ancora una volta, l’ambientazione è quanto meno italiana quanto più fiabesca e universale possibile, nonostante il Mangiafuoco interpretato da Giuseppe Battiston alterni italiano e inglese e altri personaggi di contorno ricorrano ad un strano accento che vorrebbe essere dialettale ma in verità li fa apparire come membri della famiglia Gucci di Ridley Scott. Invece quando poi il protagonista si ritrova in strada per un attimo veniamo catapultati in una Londra dickensiana, con un chiaro rimando alle atmosfere della versione di A Christmas Carol dello stesso Zemeckis, tra il fumo e un lugubre buio. Il Paese dei Balocchi si trasforma in un Luna Park dell’orrore (dove non mancano taglienti riferimenti alla società contemporanea), il Postiglione di Luke Evans (notevole in questo versante) diventa uno spietato industriale aiutato da creature mostruose. Una dimensione dark che questo Pinocchio accentua rispetto al film originale (dove già non mancano momenti decisamente audaci, come il protagonista che beve e fuma o quando si trasforma in asino) e sembra molto nelle corde del regista. Così come è visivamente riuscita la sequenza avventurosa della fuga dei due mostri marini, resi assai minacciosi da una buona CGI (mentre non convince ancora una volta la scelta di un ricercato fotorealismo nel tratteggio del Gatto e la Volpe).

Infine, il film trova la propria strada anche per quanto riguarda il ritratto del protagonista che emerge. Riducendo la Fata Turchina ad un'unica scena, non ne fa più una sorta di deus ex machina che toglie dai pasticci Pinocchio, lasciando invece che sia lui stesso con il proprio ingegno a risolvere la situazione in cui si ritrova (il modo in cui si libererà da Mangiafuoco, ad esempio). Così il percorso che lo rende umano, più che la celebrazione didascalica dell’importanza della coscienza (che non fa certo qui una bella figura, rappresentata da un grillo parlante goffo, impacciato e codardo) o delle buone azioni, lo sembra essere del coraggio e dello spirito d’iniziativa.

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