Pieces of a Woman, la recensione | Venezia 77

Il primo film internazionale di Mundruczo è personalissimo, difficile, non sempre riuscito, anche se in Pieces Of A Woman non mancano gemme

Critico e giornalista cinematografico


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Kornel Mundruczo (alla regia) e sua moglie Kata Weber (alla sceneggiatura) in Pieces of a Woman traducono se stessi e trasformano qualcosa che è accaduto loro al momento di avere un figlio nella storia di Shia Labeouf e Vanessa Kirby. Gli autori prendono due attori che diventino loro, così da elaborare ed esorcizzare un dramma.

Il risultato è un film che mette insieme i cocci di qualcosa che si è rotto, e lo fa prima di tutto rimettendolo completamente in scena, a fondo e senza pietà, in un unico piano sequenza complicato ed eccellente. Per la prima mezz’ora di Pieces of a Woman vediamo un parto in casa, dal travaglio fino alla fatica del partorire. Da quello che succederà in quel parto si scatena il film. Ci saranno cause da intentare, i media polarizzati sull’opinione più facile e soprattutto familiari e amici che invadono la sfera dei due e vogliono guidare i loro sentimenti in una direzione o nell’altra.

La cosa cruciale che Pieces Of a Woman centra rispetto a tutti gli altri drammi che girano intorno a questi argomenti, è il mondo vicino a questi due amanti in difficoltà costante. La storia dura un anno, e il tempo è scandito dalle fasi di costruzione di un ponte che solo alla fine vedremo completo (costruirlo è il lavoro di lui, che facilmente possiamo immaginare essere sovrapponibile alle fasi di costruzione di un film), in quell’anno i due litigano più che altro con madri, cugini, fratelli e cognati. Inseguono relazioni difficili cercando di farsi una ragione di quel che è successo, cercando di essere autonomi. C’è un livore intorno a loro, è un livore per fatti che li riguardano e che vuole fomentare la loro rabbia. Nonostante tutto i due (specie lei) non riescono mai a condividerlo in pieno ma questo lo stesso sembra non lasciarli mai in pace. Momenti di ordinaria violenza psicologica come amici dei genitori che li assalgono nei supermercati per partecipare al loro dramma sono quelli che Mundruczo e Weber riescono a scrivere e poi mettere in scena con la giusta miscela di distanza e disprezzo.

Come tutti i film su un impasse però Pieces Of A Woman è complicato e ripetitivo, ripassa più volte sui medesimi punti cercando in quell’ossessione un senso. Raramente lo trova. Capiamo l’elaborazione ma solo a tratti ne siamo partecipi, cioè quando il film centra un’immagine o un momento. Il grande fiume in piena che dovrebbe trascinarci lungo un anno faticoso non riesce mai a prendere davvero l’abbrivio.
È la prima volta di questo regista ungherese in una coproduzione americana con attori internazionali e in lingua inglese, viene dopo i successi meritatissimi dell’assurdo White God e del godereccio Una luna chiamata Europa (un lowbudget kolossal fantastico e politico ungherese pieno di testa, il film che in Italia sembra sempre che siamo ad un passo dal fare e non ci riusciamo mai a centrare), qui sembra aver rinunciato a quella foga e ambizione che rendeva i precedenti film così notevoli. Dovrebbe essere una rinuncia a favore di una dimensione intima ugualmente potente. Ma non ce la fa. Si batte a colpi di piano sequenza, chiedendo prestazioni potenti e complicate ai suoi attori (che riescono solo a tratti a dargli materiale incendiario, troppo poco per le esigenze del film), non rassegnandosi mai alla semplicità di messa in scena, eppure lo stesso non trova mai il nocciolo che cerca. Solo noccioli di mela, il simbolismo dichiarato più sciocco del film.

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