Piccoli Crimini Coniugali, la recensione

Concepito con uno spirito che appartiene a decenni passati, Piccoli Crimini Coniugali non fa fruttare nemmeno l'unica cosa buona che ha: gli attori

Critico e giornalista cinematografico


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È probabile che qualche decennio fa (almeno più di due) un film come Piccoli Crimini Coniugali potesse ancora avere un senso. La storia di un marito e una moglie, intellettuali e borghesi che vivono in interni dall’esasperato tono borghese e intellettuale, e si distruggono a vicenda in uno scambio dialettico feroce proprio a partire da queste caratteristiche: accusandosi a vicenda di essere o non essere borghesi.
Si inizia insomma chiedendosi come davvero sia possibile raccontare oggi una storia simile, animata da questi problemi e questi contrasti così irrilevanti e fuori dal tempo, ma si finisce anche peggio: chiedendosi come sia possibile una simile metodica eliminazione di ogni componente interessante dal progetto.

Dal contesto, fino alla tipologia umana, passando per i problemi espressi e le difficoltà messe in campo, nulla in Piccoli Crimini Coniugali si muove da un terreno elitario e snob. I due coniugi di Sergio Castellitto e Margherita Buy vivono in un piccolo mondo a parte, inquadrato da un arredamento sopra le righe e da una recitazione molto al di sotto. Lui ha avuto un incidente e non ricorda più niente di sé, lei lo aiuta a riprendere confidenza con il proprio mondo, i propri problemi e ovviamente con il loro rapporto. Dopo poco scopriremo che in realtà ha finto, ricorda tutto, ma voleva vedere cosa la moglie gli avrebbe instillato. L’unico dettaglio che davvero gli sfugge però è cosa gli sia successo, cosa abbia causato l’incidente.

L’ansa di mistero è sufficiente per essere riempita di ogni fobia e crisi, di ogni sospetto e malizia, ogni narcisismo che solo un intellettuale borghese dall’alterigia espressa da Castellitto può possedere, almeno se sposato con una donna dura e ambiziosa come solo Margherita Buy può interpretare. Il mistero vero invece, quello del film, è come sia possibile centrare tutto un lungometraggio su due attori simili e non tirare fuori una prestazione degna di questo nome. Distanti e algidi per buona parte del tempo, disposti a sacrificare l’azione sull’altare della parola e solo occasionalmente capaci di lavorare con tutto il corpo (come sempre quando Castellitto lo fa tutto sembra cambiare di tono e ritmo in un attimo, tutto diventa un film vero), i due protagonisti e unici attori in campo non reggono una storia indecisa tra un tono teatrale (la provenienza è chiara) e uno letterario (la velleità è chiarissima) ma di certo mai cinematografico, finendo subito nell’involontaria parodia.

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