Piccoli Brividi, la recensione

Tratto dall'omonima serie di libri, Piccoli Brividi è un film per ragazzi scritto, diretto e interpretato con più intelligenza di molti di quelli per adulti

Critico e giornalista cinematografico


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A chi sostiene che un certo cinema per ragazzi non si faccia più, quello intelligente, avventuroso e appassionante, che li tratti da persone con un cervello e non da imbecilli con un telecomando, bisognerebbe far vedere Piccoli Brividi, vero gioiello della categoria. La storia già è una trovata in sè.

Da diversi anni Hollywood cerca di portare in film il successo della serie di libri omonima di R. L. Stine (tutti centrati su ragazzi, storie di paure e crescita), ad un certo punto arrivando a coinvolgere anche Tim Burton. Invece che adattare uno dei molti libri però la scelta è andata verso la complessità, il film infatti ha una storia originale con lo stesso scrittore come coprotagonista. La trama racconta di un ragazzo (ovviamente) che scopre che il suo nuovo vicino di casa è il famoso scrittore R. L. Stine, il quale ha scritto tutti i suoi libri di paura con una macchina da scrivere che rende vero ciò che viene battuto. Per questo motivo ha intrappolato ogni singola creatura da lui raccontata in libri dotati di lucchetto. Ovviamente questi libri saranno aperti e i tutti i mostri della serie Piccoli brividi liberati in giro per la cittadina durante una lunga notte da incubo. I protagonisti dovranno capire come rimetterli al loro posto.

Nella parte di R. L. Stine c’è Jack Black e già la scelta di casting è una dichiarazione d’intenti. Lo Stine del film è un personaggio ridicolo che quel grande attore che è Black riesce ad interpretare tenendosi in equilibrio tra esagerazione e coerenza, senza sconfinare nella macchietta pura ma rimanendo con un piede nel fantastico. Piccoli brividi infatti ha il gusto puro dell’invenzione e delle storie d’orrore solo a parole (in realtà sono romantiche e divertenti, sveglie e consapevoli di quel che può divertire i ragazzi), una passione per l’intrattenimento di qualità che è quasi commovente.

Su un simile impianto il film di Rob Letterman scorre con il piacere del cinema semplice dalle aspirazioni classiche. Se nella storia non c’è niente che non sia prevedibile, se non il twist tipico della serie Piccoli brividi (cosa che diventa quasi una gag nella gag durante il film), altro si può dire della forma. La fusione tra realtà e fantasia è portata avanti non solo con un gran lavoro in CG (i molti mostri) ma anche con una color correction e un ritocco alle immagini che posiziona gli eventi in un mondo che è il nostro solo fino ad un certo punto.

Coerentemente con l’interpretazione di Jack Black, tutto il film oscilla tra macchietta e serietà, tra guilty pleasure e satira di costume (specie verso il mondo dell’editoria, tema paradossale per una commedia romantica adolescenziale con mostri). I colori, i luoghi, gli ambienti e la lunga nottata illuminata dalla Luna con una ruota panoramica in mezzo alla foresta, sono coordinate che schifano il “realismo” (termine da prendere con le pinze in questo caso) di classici come Un lupo mannaro americano a Londra o Scuola di mostri, e cercano invece quella parentela con l’animazione che il largo uso di computer grafica suggerisce. Non è quindi solo la tecnica a creare un ibrido tra il disegno e il cinema dal vero, ma anche il tono, assestato in una regione tra il serio e il faceto. E questo è un piacere in sè.

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