Il Piano di Maggie - A Cosa Servono Gli Uomini, la recensione

In continua oscillazione tra il pedante e ombelicale ma anche tra il raffinato e il tenero, Il Piano di Maggie è un film che si fa amare con il tempo

Critico e giornalista cinematografico


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È molto facile odiare Il Piano di Maggie. I suoi ambienti newyorkesi ricercati, la maniera in cui si bea dell’appartenenza ad un’elite culturale (i protagonisti sono insegnanti universitari, romanzieri, antropologi…), in cui rappresenta un circolo molto ristretto e ombelicale, poiché quella precisa tipologia umana è la medesima a cui appartiene chi il film lo realizza, sono tutti elementi fastidiosi e pedanti.
Eppure in questa parabola che è solo una delle molte in cui Greta Gerwig interpreta il “suo personaggio” (una donna tra i 30 e i 40 anni, esterna alle consuete dinamiche sentimentali, sola e completamente persa tra aspirazioni tipiche da vita moderna e voglia di essere come gli altri, cioè trovare un equilibrio) c’è un’umanità sorprendente che sarebbe troppo miope negare.

Rebecca Miller su un’impalcatura molto nota, quella del film indie newyorchese, riesce a scomparire e costruire così, con l’apparente assenza del narratore, un’opera di lenta maturazione, una che impiega tutto il primo tempo per fermentare e poi si libera nel secondo. Maggie vuole mettere ordine nella propria vita, non riesce a stabilire legami duraturi ma lo stesso desidera un figlio, così sceglie un donatore di sperma ma proprio nel momento in cui ha intrapreso la strada dell’inseminazione artificiale l’uomo ideale entra nella sua vita. Il prezzo da pagare per lui è lasciare la propria famiglia. Questi due poli, una famiglia e una moglie abbandonati da una parte e una nuova famiglia appena creata dall’altra, sono gli opposti tra cui oscillano i personaggi, e il fatto che oscillino con un’impressione di vicinanza molto forte non stona con la dolcezza dello sguardo.

Sono assolutamente fuori luogo i frequenti paragoni con Woody Allen, come del resto erano fuori luogo per il precedente film con Greta Gerwig uscito in Italia (Mistress America), probabilmente motivati dall’ambientazione e dalla visione cinica dei rapporti sentimentali, quel costante e inevitabile inseguire una stabilità che pare impossibile per definizione.
Il Piano di Maggie però, non solo ha ben poco a che vedere con lo stile, le tecniche e la visione di mondo di Allen ma è anche gioiosamente pessimista, rassegnato con una felicità e una serenità che appaiono la soluzione migliore ai problemi della protagonista. Come se Rebecca Miller, la regista, rispondesse a Maggie, il personaggio, il film con il suo farsi suggerisce una risposta, giungendo nel finale a punte di umorismo dolcissimo che sembrano prese a piene mani dal cinema italiano migliore.
Non è possibile considerare questo film un capolavoro ma se c’è una dote che gli va riconosciuta è quanto sappia tirare le somme con classe da una storia apparentemente ordinaria.

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