Piaffe, la recensione

Una donna che si trova a sonorizzare delle immagini per la prima volta sviluppa un'ossessione che diventa in breve erotica e scopofiliaca

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Piaffe, il film presentato in anteprima al festival di Locarno75

Scopofilia a livelli altissimi. Piaffe inizia con qualcuno che guarda attraverso un kinetoscopio, la prima forma di cinema (e l’unica individuale) che a sua volta è guardato dalla protagonista. Per tutto il film lei si occuperà di sonoro, di creare rumori per uno spot pubblicitario e quindi guarderà e riguarderà immagini di un cavallo (il primo soggetto mai filmato in movimento) per trovare i suoni giusti che possano fondersi davvero con quelle immagini. Servirà una dedizione tale (è la prima volta che fa questo lavoro) e un’ossessione tale che finirà a vedere cavalli, forme di cavallo e comportamenti da cavallo ovunque (come accadeva nel vecchio videoclip di Believe dei Chemical Brothers con una macchina da lavoro, solo con più moderazione e delicatezza). Alle fine le crescerà anche una coda di cavallo, un’appendice da subito sessuale che attira un uomo attratto dalla sessualità ibrida.

Un film sul sonoro che al contrario di Blow Out o La conversazione non è una ricerca nel senso del suono (cioè semiotica) ma una nella visione del suono (quindi sinestetica). La protagonista guarda immagini da sonorizzare e lungo il film noi la vediamo fallire e trionfare, cioè il film ci insegna, mostrandolo, cosa non funzioni e cosa funzioni, perché funzioni e quando non si accoppi. Piaffe dunque mostra uno dei processi del fare cinema mentre per tutto il tempo cerca di fare cinema quasi senza dialoghi, li usa solo quando strettamente indispensabili e per il resto predilige una cura minimale ma molto presente del sonoro stesso: immagini a 16mm con colori forti e chiari da cinema anni ‘70, un tono e soprattutto delle luci bianche fantastiche. La cura cromatica (in perfetta armonia con la scenografia come fossimo in un film di Almodovar) è incredibile.

Più credibile e meno convincente invece è la pervicacia teorica con la quale gestisce l’ossessione del guardare e ad essa sottomette tutto il resto. Questa è un’idea che sembra potrebbe funzionare molto di più in un cortometraggio e che mostra invece dei limiti nella forma lunga (anche se sono meno di 90 minuti). Così anche quando nel finale, dopo aver assistito ad immagini naturali di felci che si schiudono che, guardate velocizzate, sembrano avere quasi qualcosa di erotico e dopo aver toccato con gli occhi e le orecchie le ossessioni e la maniera in cui la protagonista porta quella nuova coda con vezzosità, anche un corteggiamento che avviene dentro al kinetoscopio appare come un momento di strano erotismo e scopofilia, un’apice più che altro concettuale (come tutto Piaffe) a cui purtroppo si arriva un po’ spompati da quasi 90 minuti languidi e molto allungati.

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