Philip K. Dick's Electric Dreams 1x05 "Real Place": la recensione

La recensione del quinto episodio di Philip K. Dick's Electric Dreams, intitolato Real Place

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È abbastanza chiaro l'approccio che si è deciso di seguire nel trasporre alcuni dei racconti alla base di Philip K. Dick's Electric Dreams. C'è grande spazio al sentimentalismo e a derive più intime e sofferenti, dove invece l'autore raramente – quasi mai – si lasciava andare alla classica morale da trarre dalla storia. Finora si è parlato di ricordi perduti, di amore, di dolore, di insofferenza, e ancora di tutto questo torna a parlare il quinto episodio della serie di Channel 4, intitolato Real Place e tratto dal racconto Exhibit Piece.

Scritto da Ronald D. Moore e diretto da Jeffrey Rainer, l'episodio si svolge in un futuro nel quale un'agente, interpretata da Anna Paquin, soffre a causa di sensi di colpa. Prova infatti un'intima vergogna per essere sopravvissuta ad un fatto nel quale altri hanno perso la vita. La sua compagna, interpretata da Rachelle Lefevre, le propone allora di utilizzare uno strumento in grado di trasportare la coscienza dell'utente all'interno di un'altra vita. Una specie di sogno ad occhi aperti nel quale riuscire a dimenticare i problemi del mondo vero. Al momento del passaggio, ci troviamo nel corpo di un certo George Miller (Terrence Howard), che scopriremo avere altri problemi e altri sensi di colpa.

L'intreccio è molto prevedibile e segue tutte le svolte che ci aspetteremmo. I due piani si sovrappongono, ognuno contiene l'altro e non è chiaro chi sia il sognatore e chi sia il sognato. Ciò che allora è importante è capire le reali motivazioni della fuga dalla reltà e, come avevamo già visto in The Commuter, venire a patti con le proprie mancanze. Qui in particolare l'immaginazione di una vita diversa non è tanto una distrazione, quanto una forma di punizione autoinflitta da parte di chi non riesce ad accettare la vergogna di essere felice o semplicemente vivo.

Lo spunto è interessante e meritevole, ma non è sostenuto adeguatamente dall'intreccio, piuttosto basilare in realtà una volta compreso il gioco. C'è l'idea di ricondurre tutto ad una semplicità di fondo che, come in altre occasioni, mette da parte il concetto di paranoia – termine chiave della poetica di Dick, ma piuttosto assente in questa serie – in favore di considerazioni più sentimentali. Perfino la svolta finale ritrae la mano da una conclusione aperta e quindi terrificante perché priva di punti di riferimento che avrebbe avvicinato molto l'approccio a quello di Black Mirror. Non è necessariamente sbagliato, ma è qualcosa che fa procedere le storie con il freno a mano tirato, quando invece il formato antologico permetterebbe di rischiare molto di più anche con i finali.

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