Phantom Boy, la recensione
Perdente sia come interpreta il proprio genere, sia per come si rapporta agli altri film, Phantom Boy non riesce mai a centrare quel che vorrebbe raccontare
Per il resto però quello di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol però è un film abbastanza differente, una specie di grande allegoria delle difficoltà superate con la fantasia. Al centro c’è infatti un bambino che, sottoposto alla chemioterapia, scopre di avere il potere di diventare spettro e in questo modo volare non visto da nessuno, arrivare là dove gli altri non possono. Metterà a frutto questo “potere” per aiutare un poliziotto (anche lui fermo in ospedale dalla rottura di una gamba) e una giornalista contro un pericoloso criminale.
Ci sono molte componenti strane in Phantom Boy, a partire dall’ambientazione newyorkese che cozza sia con lo stile dei disegni che con proprio la maniera in cui è disegnata la città (tutto sembra tranne New York), per finire con un tono tra il noir e il poliziesco più blandi, contaminati dal cinema per ragazzi all’europea. Tutto ha il ritmo e l’incalzante eccitazione dei cartoni francesi d’autore. Cioè nessuno. Phantom Boy è il tipico esempio di cinema per ragazzi per adulti, cioè quei film che gli adulti amano pensare che piacciano ai ragazzi. Tutto in quest’opera (ma come del resto già in Un Gatto A Parigi, il film precedente del duo) è lontano dall’immaginario infantile e vicino a quello maturo, in un cortocircuito che non ha niente di virtuoso e tanto di borioso.
Non c’è bisogno di dire che quel tipo di poliziesco cui Phantom Boy vorrebbe ammiccare non ha senso in un film per bambini (il cuore di quel genere e quei toni è proprio ciò che non è raccontabile a quel pubblico), ma si può invece dire che anche le componenti più standard (l’eroismo, la rivincita personale, il grande showdown finale, il rischio di morte) sono affrontate con così poca conoscenza dei loro meccanismi, di dove risieda il loro fascino, da fallire regolarmente l’appuntamento con ciò che dovrebbero suscitare.