Petrov's Flu, la recensione | Cannes 74
Pronto a tutto per raccontare il delirio del suo paese Petrov's Flu è un film allucinatissimo in cui seguiamo un'aspirina
Sembra di essere in un film di Alexey German per tutta la lunga prima parte di Petrov’s Flu, uno di quelli in cui il caos invade ogni inquadratura, il ritmo della storia è imposto da dialoghi sovrapposti e una nebbia fitta che impedisce di vedere accorcia il campo visivo. Non è nemmeno confusione, ma proprio vera anarchia in cui sentiamo le opinioni più populiste, mentre qualcuno fucila qualcun altro senza scandalizzare troppo gli astanti, in cui si rubano bare con cadaveri e via dicendo. Potrebbe essere il setting di un film di Kusturica se non fosse che questo caos non è mai gioioso e non è mai alimentato dalla solidarietà delle persone ma anzi dalla diffidenza e da un certo timore notturno. Un caos malato da fine impero, in cui chiunque rischia e ognuno pensa per sé.
Tanto c’è un senso di oppressione e sofferenza nel presente oscuro e notturno in cui si fucila come niente e in cui l’alcol non è un conforto, quanto poi Petrov’s Flu si apre nei flashback, trovando quell’armonia di corpi nudi, luce e sensazioni forti che pervade i momenti migliori di tutti i film di Serebrennikov, un regista che la nudità non la sfrutta mai ma semmai la usa come un linguaggio, con il medesimo peso in ogni inquadratura di costumi o scenografia. E in quel momento passato (paradossalmente nella Russia sovietica, non proprio un Eden), in quello stacco violento dal caos notturno al sole e l’ordine, c’è una di quelle affermazioni violente fatte con il montaggio che caratterizzano il vero cinema, la giustapposizione che crea senso.
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