Peter von Kant, la recensione

Con Peter von Kant Ozon sembra avere sbagliato i calcoli, girato di fretta e con poca cura, riducendo l’impegnativo adattamento della pièce di Fassbinder ad un confuso mélo da camera privo di idee, svogliato, ripetitivo.

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La recensione di Peter von Kant, al cinema dal 18 maggio

François Ozon è un autore talmente tanto prolifico - quasi un film all’anno - che è praticamente matematico che ogni tanto sbagli un film. E, infatti, prima della meravigliosa commedia femminista “à la Lubitsch” Mon Crime (uscita in Italia prima di questo film) con Peter von Kant Ozon sembra avere sbagliato i calcoli, girato di fretta e con poca cura, riducendo l’impegnativo adattamento della pièce di Fassbinder (Le lacrime amare di Petra von Kant) ad un confuso mélo da camera privo di idee, svogliato, ripetitivo.

Rispetto a Fassbinder vengono invertiti i ruoli di genere e al posto di una ricca stilista di mezza età delusa da storie d’amore c’è un regista, Peter von Kant (Denis Ménochet) che come la Petra di Fassbinder osserviamo autodistruggersi per gli stessi motivi nella sua lussuosa casa di Colonia negli anni Settanta. Peter infatti, dopo avere conosciuto tramite l’amica attrice Sidonie (Isabelle Adjani) il giovane Amir (Khalil Ben Gharbia) se ne innamora pazzamente, entrando in un vortice distruttivo di possessività e desiderio. A circondarli vi è lo sguardo giudicante dell’assistente Karl, presenza silenziosa e costante.

Pensato, come spesso fa Ozon, come la sintesi cinematografica di una materia squisitamente teatrale, Peter von Kant è un film che dovrebbe/vorrebbe reggersi sul dialogo, sulla creazione di dinamiche drammatiche interne al medesimo luogo (l’appartamento di von Kant). È però proprio la scrittura ad essere manchevole: il protagonista verso cui dovremmo provare empatia ci appare chiuso in un ripetitivo lamentìo, ostile a rivelare i suoi più profondi fantasmi; e così il dramma di Peter von Kant appare subito come il dramma di un uomo che ha scelto di sprofondare, drammaticamente immobile e succube di un personaggio che, parimenti, non fa altro che dimostrare la sua pochezza umana.

Per l’intera durata del film, Ozon non riesce a dirci nulla sui personaggi se non quello che impariamo all’inizio. I personaggi di contorno a poco servono, se non - ancora! - a reiterare quello stesso sapere, ovvero che Peter von Kant è un uomo vanitoso che si è scavato la fossa facendosi fregare dalla vanità di un giovane uomo che, probabilmente, non diventerà tanto diverso da lui.

Data la scarsità del materiale narrativo Ozon ha ben poco da lavorare sulle immagini. Il fatto che abbia deciso di rendere il “suo von Kant” un regista poteva far pensare ad intenzioni linguistiche interessanti - anche perché Ozon lavora sempre con un occhio di riguardo sull’idea di cinema, la sua storia, come si mescola con l’arte teatrale. Qui invece l’idea di cinema e di teatro come sublimazioni delle tragedie della vita si riduce a far circondare von Kant di ritratti adonici del suo amato Amir. L’ennesima affermazione, ora visiva, di un’ossessione che era già piuttosto chiara.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Peter von Kant? Scrivetelo nei commenti!

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