Peter von Kant, la recensione
Con Peter von Kant Ozon sembra avere sbagliato i calcoli, girato di fretta e con poca cura, riducendo l’impegnativo adattamento della pièce di Fassbinder ad un confuso mélo da camera privo di idee, svogliato, ripetitivo.
La recensione di Peter von Kant, al cinema dal 18 maggio
Rispetto a Fassbinder vengono invertiti i ruoli di genere e al posto di una ricca stilista di mezza età delusa da storie d’amore c’è un regista, Peter von Kant (Denis Ménochet) che come la Petra di Fassbinder osserviamo autodistruggersi per gli stessi motivi nella sua lussuosa casa di Colonia negli anni Settanta. Peter infatti, dopo avere conosciuto tramite l’amica attrice Sidonie (Isabelle Adjani) il giovane Amir (Khalil Ben Gharbia) se ne innamora pazzamente, entrando in un vortice distruttivo di possessività e desiderio. A circondarli vi è lo sguardo giudicante dell’assistente Karl, presenza silenziosa e costante.
Per l’intera durata del film, Ozon non riesce a dirci nulla sui personaggi se non quello che impariamo all’inizio. I personaggi di contorno a poco servono, se non - ancora! - a reiterare quello stesso sapere, ovvero che Peter von Kant è un uomo vanitoso che si è scavato la fossa facendosi fregare dalla vanità di un giovane uomo che, probabilmente, non diventerà tanto diverso da lui.
Data la scarsità del materiale narrativo Ozon ha ben poco da lavorare sulle immagini. Il fatto che abbia deciso di rendere il “suo von Kant” un regista poteva far pensare ad intenzioni linguistiche interessanti - anche perché Ozon lavora sempre con un occhio di riguardo sull’idea di cinema, la sua storia, come si mescola con l’arte teatrale. Qui invece l’idea di cinema e di teatro come sublimazioni delle tragedie della vita si riduce a far circondare von Kant di ritratti adonici del suo amato Amir. L’ennesima affermazione, ora visiva, di un’ossessione che era già piuttosto chiara.
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