Peter Rabbit, la recensione

Arrivato al cinema Peter Rabbit diventa odiosamente cool a tavolino mentre il suo nemico in carne ed ossa, Domhnall Gleeson, è il vero protagonista

Critico e giornalista cinematografico


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Sempre di più nei cartoni animati contemporanei che mescolano animazione e cinema dal vero (come è stato il successo dei nuovi Puffi o quello di Alvin Superstar un po’ di anni fa) i veri cartoni e la vera attrazione sono gli attori in carne ed ossa. I personaggi animati non hanno grandi personalità, né grandi storie, sono pretesti per far muovere gli attori spesso molto noti, come fossero loro i cartoni. Come se in realtà, in un film in cui il personaggio del titolo è quello disegnato, fossero in realtà i loro compari o le loro nemesi a seconda dei casi a prendersi tutta la luce e giustificare un biglietto staccato.

Peter Rabbit non ha una grande idea su come trasformare i personaggi di Beatrix Potter, cioè il massimo della tradizione, in qualcosa di cinematografico buono per entrare in competizione con il resto della produzione per ragazzi. L’immaginario della disegnatrice e scrittrice britannica (a sua volta al centro di un film biografico qualche anno fa, Mrs. Potter) è abbastanza preciso, molto caratteristico sia nel tratto che soprattutto nel tono dolce (che poi è quel che ne ha fatto la fortuna), ed era evidente che non avrebbe mai potuto abitare un film replicando proprio quel tono lì, doveva necessariamente assumerne un altro. Purtroppo questo è stato l’ambito in cui è stata fatta la minore fatica. Peter Rabbit è qui il classico personaggio dei cartoni metacinematografico, che sa di essere “scritto” che abusa di modernismi e di musica rock contemporanea, le parole che pronuncia e l’aria sbruffona lo definiscono.

Con pochissimo spazio ai comprimari animati tutto il film è un duetto tra lui e Domhnall Gleeson (nipote della sua nemesi storica, mr. McGregor), in lotta feroce per l’amore di Bea, la donna interpretata da Rose Byrne che funziona da avatar di Beatrix Potter (è disegnatrice e disegna con lo stile della Potter proprio quei coniglietti che adora e che vivono nel suo giardino). Gleeson fin dall’entrata in scena come commesso arrivista di un grande magazzino di città è formidabile, ha un tempo fantastico e come avevamo già visto in Barry Seal, un talento comico chiaro e non urlato, che funziona su piccoli gesti ed espressioni misurate che compaiono come coltellate. È lui il vero protagonista, l’anima che dà al film quella poca forza che ha. È caricaturale ma non troppo, umano e contemporaneamente perfettamente credibile quando viene sballottato come fosse un cartone.

Peter Rabbit invece è noioso e borioso, senza che queste due caratteristiche vengano ammesse esplicitamente dal film che invece pensa di avere un protagonista simpatico. Moderno solo per atteggiamenti svogliatamente da teppista e per la parlata rapida e il linguaggio contemporaneo, Peter Rabbit oscura tutti gli altri conigli e animali, il suo mondo di fatto non esiste, esiste solo lui e la sua coolness creata a tavolino (dunque inesistente) che combatte una guerra più fisica che mentale contro un umano. Eppure è sempre quest’umano il personaggio con cui è possibile empatizzare nonostante sia presentato come meschino, perché è lui l’unico dotato sia di una profondità sia della capacità di far ridere come un cartone animato.

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