Peter Rabbit, la recensione
Arrivato al cinema Peter Rabbit diventa odiosamente cool a tavolino mentre il suo nemico in carne ed ossa, Domhnall Gleeson, è il vero protagonista
Peter Rabbit non ha una grande idea su come trasformare i personaggi di Beatrix Potter, cioè il massimo della tradizione, in qualcosa di cinematografico buono per entrare in competizione con il resto della produzione per ragazzi. L’immaginario della disegnatrice e scrittrice britannica (a sua volta al centro di un film biografico qualche anno fa, Mrs. Potter) è abbastanza preciso, molto caratteristico sia nel tratto che soprattutto nel tono dolce (che poi è quel che ne ha fatto la fortuna), ed era evidente che non avrebbe mai potuto abitare un film replicando proprio quel tono lì, doveva necessariamente assumerne un altro. Purtroppo questo è stato l’ambito in cui è stata fatta la minore fatica. Peter Rabbit è qui il classico personaggio dei cartoni metacinematografico, che sa di essere “scritto” che abusa di modernismi e di musica rock contemporanea, le parole che pronuncia e l’aria sbruffona lo definiscono.
Peter Rabbit invece è noioso e borioso, senza che queste due caratteristiche vengano ammesse esplicitamente dal film che invece pensa di avere un protagonista simpatico. Moderno solo per atteggiamenti svogliatamente da teppista e per la parlata rapida e il linguaggio contemporaneo, Peter Rabbit oscura tutti gli altri conigli e animali, il suo mondo di fatto non esiste, esiste solo lui e la sua coolness creata a tavolino (dunque inesistente) che combatte una guerra più fisica che mentale contro un umano. Eppure è sempre quest’umano il personaggio con cui è possibile empatizzare nonostante sia presentato come meschino, perché è lui l’unico dotato sia di una profondità sia della capacità di far ridere come un cartone animato.