Pet Sematary, la recensione

Adagiato sulle convenzioni che già conosciamo di Stephen King, Pet Sematary fa un lavoro molto blando sul testo tirandone fuori sempre le solite componenti

Critico e giornalista cinematografico


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Si può ragionevolmente affermare che dopo decenni in cui le storie di Stephen King hanno cambiato la narrativa di paura sia al cinema che in letteratura, forse per un adattamento (specie se remake di un altro adattamento) forse è necessario qualcosa di più di un horror convenzionale.

Si può inoltre ragionevolmente affermare anche che mettere in scena i soliti luoghi comuni della paura di Stephen King sia ad oggi insufficiente. Non perché non funzionino (alcune idee sono così forti che funzionano quasi matematicamente, come un interruttore per la paura) ma perché ci siamo abituati, sono parte dell’immaginario comune e li abbiamo digeriti. Non colgono più di sorpresa ma colpiscono là dove lo spettatore già ha eretto delle difese. Adattare King senza puntare sui soliti meccanismi horror è stato il segreto del nuovo IT, quasi una rilettura di come si può adattare quello scrittore essendo contemporaneamente molto fedeli e molto anche innovativi (all’interno del campo dei film tratti da Stephen King), ed è al contrario quel che affossa questo nuovo Pet Sematary.

Molto spesso nelle storie di King il male è incarnato negli uomini ma proviene dai luoghi, andando a scavare sono quasi sempre i posti che influenzano le persone e che le agiscono. Comunità intere sono avvelenate e singole vite sono minacciate da un complesso di eventi e presenze che fanno capo ad una zona, e in quanto tale un luogo non è contrastabile, solo le sue emanazioni lo sono. Quest’idea è fortissima in Pet Sematary, in cui esiste una parte del bosco i cui poteri consentono a chiunque sia stato seppellito lì di tornare in vita, un luogo che per questo attrae ed esercita una strana influenza sulle persone e che coinvolge una famiglia appena arrivata in un terribile gioco al rialzo tra strane morti e desiderio di riportare in vita i cari (i quali quando ritornano non sono gli stessi di quando erano in vita). Per il film di Kolsch e Widmyer però esiste solo il consueto armamentario di grandi spaventi e bambini demoniaci.

Al netto dei tantissimi richiami e delle molte strizzate d’occhio al mondo di Stephen King (cartelli che indicano la città di Derry, sangue che esce da montacarichi, libri su cimiteri indiani…), Pet Sematary non riesce a far funzionare pienamente i suoi punti di forza. Non lavora sulla strana attrazione verso qualcosa di malato e proibito, non gioca con il rimorso, né con la presenza inquietante di un morto in casa. Anche la trama parallela degli incubi e dei rimorsi materni sembra molto slegata dal resto del film, potrebbe essere rimossa senza che la storia necessiti di ulteriori aggiustamenti.

A far vibrare il film allora dovrebbe essere proprio il cimitero, quel luogo da cui tutto viene, ma quando si scavalla dalle ambientazioni quotidiane, naturaliste, a quelle più evocative e spaventose, superando la barriera di ciocchi legna assieme ai personaggi, si nota lo stacco netto tra il mondo delle riprese dal vivo a quello della postproduzione. Se poteva essere un’idea marcare la differenza tra vivi e “ritornati in vita” o tra mondo reale e reame degli incubi, la computer grafica raggiunge solo l’obiettivo di straniare.

Discutibile, infine, l'idea di mettere sui titoli di coda una cover di Pet Sematary dei Ramones più educata dell'originale.

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