Pessime storie, la recensione
Episodi che spingono sul grottesco sono in Pessime storie una maniera per far scontrare le classiche opposizioni che caratterizzano l'umanità
Sono pessime queste storie e non “pazzesche” come quelle del film del 2014, in più sono spagnole e non argentine, lo schema però è molto simile. In un film ad episodi si alternano un pugno di trame paradossali per svolgimento ed esiti, tutte destinate a confluire in un finale comune. A cambiare tra i due film è il tono del racconto. Quello argentino di Damian Szifron 7 anni fa lavorava sul delicato crinale tra possibile e plausibile, cercando di ritrarre un mondo molto realistico in cui accadono coincidenze al limite del credibile; questo di Javier Fesser è invece è un film grottesco a tutti gli effetti in cui i toni e i personaggi sono molto calcati. In questo, strano a dirsi, Pessime storie nei suoi momenti migliori si avvicina alla sottile perfezione di certi film italiani ad episodi degli anni ’60 (sebbene quelli grotteschi non fossero), per poi stravolgerla con la stilizzazione fumettistica che caratterizza i nostri anni.
Pessime storie usa però come cifra espressiva il conflitto, accoppia caratteri opposti per far impazzire i deboli o per punire gli insopportabili, rappresenta divisioni mai d’attualità ma sempre eterne (caos e ordine, modernità e nostalgia, verità e menzogna, altruismo ed egoismo). Su tutto, nonostante la riuscita non omogenea dei vari segmenti, emerge la gran destrezza di Fesser. La dove Szifron cercava di nascondersi Fesser si mette in primo piano, è capace di scegliere sempre benissimo gli interpreti e manipolare a dovere i toni. Sa per esempio quando è il momento di creare un piano sequenza unico (la scena dell’incontro in strada tra l’amante delle regole e il suo primo caotico carnefice che lo porterà via) o quando spezzare il ritmo in continui campi e controcampi (il segmento tra l’extra comunitario e la donna avida), come anche quando adottare luci e toni da blockbuster (la parte finale).