Pesci piccoli, la recensione della prima stagione

La prima sit-com dei TheJackaL è un'ode al lavoro di gruppo, il racconto della loro collettività su una trama che sovverte le aspettative

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di tutti i sei episodi di Pesci piccoli, disponibili su Prime Vide dall'8 giugno

Dentro Pesci piccoli c’è un’idea non poco sovversiva, quella di un contenuto di commedia se non proprio comico (una sit-com), ambientato in un generico sud di provincia o comunque marginale, in cui finisce un personaggio che proviene dalla città e dalle sedi centrali e importanti di un’azienda di pubblicità (un generico nord). È la punizione per aver dato uno schiaffo ad Achille Lauro durante una riunione per uno spot pubblicitario che lo avrebbe visto come testimonial. Lì troverà una nuova dimensione di vita, più umana. L’idea sovversiva è di prendere questa impostazione che è la stessa identica di Benvenuti al sud e decine di altre commedie italiane dello sradicamento verso Sud, cioè l’idea più trita, svogliata, convenzionale e piegata sui soliti stereotipi che sia possibile concepire oggi, e farne l’esatto opposto: qualcosa di eccitante, realmente divertente, moderno e privo di stereotipi. La sovversione sta proprio nel prendere ciò di cui pensiamo di sapere tutto e che non crediamo possa contenere niente di buono, creare delle aspettative di convenzionalità e ribaltarle dimostrando che anche in un contesto simile, anche partendo dal peggiore degli spunti, si può fare creare l’opposto: qualcosa di originale e personale.

È quasi certo che non ci fosse realmente questa idea alla base della creazione della prima sit-com dei TheJackaL, ma più quella di raccontare attraverso la metafora dell’agenzia pubblicitaria piccolina, la loro realtà, la loro vita da ufficio e il loro lavoro con clienti esigenti e uno sforzo di squadra per portare ogni volta la giornata ad una conclusione degna. Non sono certo un’agenzia piccola i TheJackaL, almeno non oggi, ma conoscono quei meccanismi e si vede. Quello che conoscono ancora di più però è come funzioni il racconto audiovisivo, e così dopo un paio di episodi in cui imbastiscono bene la situazione e annunciano i personaggi, si comincia a capire che Pesci piccoli in ogni puntata ha l’ambizione di far coincidere forma e contenuto del racconto. La stessa storia di un personaggio che entra in un’agenzia con un ruolo importante, dirigenziale, e deve integrarsi in una squadra già affiatata (per quanto in modi strani), è rispecchiata dal fatto che la vera protagonista, l’attrice Martina Tinnirello, si deve inserire in un team di attori già molto affiatato e avviato (cioè Gianluca Fru, Aurora Leone, Ciro Priello e Fabio Balsamo).

Pesci piccoli in quasi ogni episodio cambia stile (anche se magari solo di un po’), e ogni volta quello stile cerca di affermare la stessa cosa che dice la trama. È particolarmente evidente nella puntata fatta tutta nello stile di The Office, cioè copiando una forma da un’altra sit-com, e che a sua volta è centrata su una trama di plagio: qualcuno ha plagiato una pubblicità dei protagonisti ma loro scoprono di averla plagiata a loro volta e ne usciranno dimostrando che quelli da cui l’hanno plagiata anche l’avevano plagiata da altri. Tutta la puntata sarà piena di frasi che i personaggi si attribuiscono ma sono di altri e scopiazzature di forma e contenuto per l’appunto da The Office. E così l’ultima in cui un discorso sul corpo della donna prende pieghe poco attese, si ribalta in modo comico con un discorso sul corpo degli uomini, e non è ben chiaro alla fine che morale ci sia da trarre o se davvero una sia possibile in un delirio demenziale di danza e metacommento. 

Rispetto alle altre serie italiane, per non dire alle sit-com, è un altro mondo e fa una strana forma di fatica per unire l’idea più avanzata di sit-com (quella americana) con un cuore, uno svolgimento e dei temi molto italiani (come cultura, non come industria audiovisiva), e l’eredità di esperienza, stile e tecnica dei TheJackaL, cioè quel complesso di espedienti e soluzioni elaborate negli anni di pubblicità, video online e tutti i molti generi di produzione cui si sono dedicati. È Francesco Ebbasta a dirigere e quindi immaginare ritmo e svolgimento. Un po’ meno Edgar Wright rispetto ad Addio Fottuti Musi Verdi, un po’ meno convenzionale rispetto a Generazione 56K (in cui visivamente avevano vestito proprio l’abito di Netflix) ma sempre inventivo come suo solito e voglioso di fare qualcosa di nuovo, come ad esempio in questo caso un gioco interessante e continuo con il secondo e in certi casi terzo piano dello sfondo. Fa piacere vedere alla sceneggiatura anche il nome di un’altra autorità emersa come i TheJackaL negli anni dell’esplosione del video online italiano, Luca Vecchi dei ThePills (oltre a Francesco Ebbasta e Alessandro Grespan che hanno ideato e Stefano Di Santi che ha co-sceneggiato).

Più in grande la parte più interessante di questa sit-com molto divertente che sa cosa significhi avere delle idee, divertirsi con la scrittura (e soprattutto con la regia) e confezionare un prodotto autoriale, uno in cui cioè scrittura e messa in scena collaborano alla creazione di senso. Nonostante una divisione dei ruoli precisa e professionalità di alto livello i TheJackaL funzionano con una creatività di gruppo molto diversa e molto più forte rispetto alle produzioni convenzionali, e là dove un autore solitamente mette in scena se stesso e la propria personalità, questa sit-com mette in scena la personalità dei TheJackaL, collettivamente. Cosa implica e come funziona la creatività di gruppo? Com’è la vita in un ufficio simile a quello dei TheJackaL e cosa fa ai rapporti personali? Al di là del fatto che molti elementi e trovate di scrittura siano ispirati a clienti reali o fatti reali raccolti in più di dieci anni di esperienza del gruppo, ad essere rappresentato è lo spirito, in forma idealizzata e in certi momenti problematizzata, del collettivo.

Ciò che lungo tutta la prima stagione la protagonista venuta dalla sede centrale fatica a comprendere è come per queste persone possa avere senso vivere e lavorare così, cioè ad un livello basso, senza grandi aspirazioni ma stranamente con grande soddisfazione. Almeno a tratti. Quello che quindi Pesci piccoli mette in scena in ultima analisi è un’ode al lavoro in sé, al clima di lavoro, al gruppo di lavoro, al senso più grande che essere tutti insieme coordinati per il raggiungimento di un risultato (a prescindere dalla sua importanza) può dare alle persone. Le prossime stagioni, che è facile immaginare ci saranno, andranno anche in altre direzioni, esploreranno di più i personaggi e avranno svolgimenti più “verticali” sui singoli. Di fatto questi primi sei episodi sono una delle operazioni migliori e più godibili sul piacere di essere un gruppo affiatato.

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