Perfetti Sconosciuti, la recensione
Paolo Genovese trova la quadratura del cerchio e in Perfetti Sconsociuti unisce il più classico gioco al massacro con un'impensabile leggerezza e amicizia
Perfetti Sconosciuti è sicuramente l’opera più quadrata, compiuta e seria della carriera del regista di Immaturi. Nonostante non rinunci mai al tono più leggero e alla risata, questa volta Genovese riesce ad accompagnarla ad una scrittura molto più precisa, senza i soliti grumi risolti con sequenze ruffiane, ma scorrevole e soprattutto determinata.
Infatti di questa lunga cena con eclissi lunare (tra tutte forse il “metaforone” più scontato e superfluo) ciò che colpisce di più è la capacità di unire il forte cameratismo di questo gruppo di amici di vecchia data con la cattiveria della psicologia della folla. Gli amici di sempre che sembrano sapersi trattare effettivamente da sconosciuti.
Perché in Perfetti Sconosciuti lo spunto iniziale (per gioco ognuno deve leggere i messaggi che riceve o rispondere al telefono in vivavoce) non è usato per svelare chissà quali oscurità o quali vite nascoste, è lo specchio per riflettere le reazioni degli altri. E proprio questo gioco di azione e reazione, riflessa nei volti e nella recitazione di ogni attore, appare come la parte più raffinata di questo lavoro di regia, la ricerca di un giudizio non in chi parla ma in chi, di volta in volta, ascolta.