Perfect Days, la recensione

In uno sforzo di mutazione cinematografica Perfect Days mescola il cinema giapponese con i gusti e lo sguardo di Wenders e crea un capolavoro

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Perfect Days, il film di Wim Wenders presentato in concorso a Cannes

Mai dare per finito Wim Wenders! Sette anni fa Ritorno alla vita aveva mostrato che ancora c’era una scintilla di umanità cinematografica, di ardore per i film, dentro quella che sembrava essere diventata una macchina di produzione di “prodotti artistici” in serie senza nessuna anima. Ora invece arriva Perfect Days, che è uno dei suoi film più belli. E lo si capisce dalla seconda inquadratura, da come nelle primissime battute inquadri la routine di un uomo giapponese che si sveglia al mattino, si lava i denti e va a fare il suo lavoro: pulire i bagni pubblici. Immediatamente c’è una sensazione di serenità, di piacere e di liberazione che solitamente i film raggiungono alla fine, quando passata una bufera i protagonisti si trovano finalmente sereni. Wenders la genera da zero, all’inizio, con un pugno di momenti, una luce fintamente naturale e Koji Yakusho, protagonista da 5-6 battute massimo in tutto il film, capace di impostare subito tutto quello che verrà con una serenità che non ha niente di dimesso, nulla di mesto, nessuna piccineria. Anzi. Già ci sembra una conquista.

Una buona parte del film è la ripetizione di queste giornate solitarie, fatte di sveglia, lavoro, un po’ di musica anni ‘70, pranzo e poi cena in chioschi locali, una passeggiata, foto agli alberi, un buon libro letto a casa e poi a dormire. Perfect Days sa trovare un milione di piccoli espedienti di vero cinema per mostrare la maniera in cui la semplicità riempia un’esistenza di piccoli piaceri, fino a ribaltare della solitudine. Non più una condanna dopo una vita di fallimento ma un traguardo. Il film sembra non iniziare mai davvero e lo fa magnificamente. È da subito un cinema umanissimo, fatto di osservazione quasi senza dialoghi, solo persone e posti guardati. Puro sguardo, dolce e personale, narrativo senza bisogno di una narrazione vera e propria. Contagioso senza nessuno sforzo apparente. I primi minuti di Wall-E estesi a metà di una storia che non inizia senza che il pubblico ne senta il bisogno ma che in realtà, lo capiremo, è già iniziata.

In questa piccola ode al senso del lavoro giapponese Wenders inserisce qualcosa di più, il senso di un passato ingombrante. Sta nelle esitazioni e negli sguardi di Yakusho sulle altre persone che lasciano intuire che ci sia qualcosa da ricordare. Così quando arriva in scena una nipote che non vede da anni sembra subito appropriata. C’è una storia particolare, una parte di famiglia che non vede e che si stupisce del lavoro che fa. L’idea magnifica è che noi stessi, scoperta la cosa, cominciamo a guardare diversamente queste giornate perfette, proprio come fa la nipote. Una piccola aggiunta non solo svela qualcosa ma cambia quello che sembrava il cardine del film, lo sguardo sul protagonista, innescando un viaggio di continua ridefinizione di cosa siano queste giornate.

La cosa pazzesca di questo Perfect Days è quanto sia un film giapponese. Ispirato all’essenzialità di Ozu (il protagonista ha il nome del personaggio dell’ultimo film di Ozu), girato in un calzante 4:3, ma anche integrato nel suo contesto culturale, abbina la piccola precisione di questa città per ad una persona dall’essenza gentile e metodica, precisa e ordinata come il posto che lo contiene e che lui contribuisce a tenere pulito. Una concordanza essenziale di forma, contenuti, ambientazioni e personaggi da vero trasformista del cinema. E un finale di incredibile partecipazione giocato tutto sul volto di Koji Yakusho (che attore!), riesce quasi senza sforzo a restituire il senso ultimo della complessità del vivere, unendo l’amarezza alla passione, la tenacia alla speranza, il senso di perdita a quello opposto di fiducia nel domani. Qualcosa che le parole faticano ad esprimere ma quelle immagini hanno una facilità disarmante a esprimere.

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