Pelican Blood, la recensione | Venezia 76
La nostra recensione del film Pelican Blood, diretto dalla regista Katrin Gebbe
Wiebke (Nina Hoss) vive insieme a sua figlia Nicolina (Adelia-Constance Giovani Ocleppo) in una fattoria dove collabora con la polizia per addestrare i cavalli destinati a compiere le attività quotidiane con i loro agenti. La quarantacinquenne decide di adottare un'altra figlia, Raya (Katerina Lipovska) e la situazione sembra inizialmente idilliaca, prima che gli eventi prendano una svolta drammatica e inaspettata. La piccola diventa infatti sempre più violenta e ingestibile, dimostrando di essere incapace di vivere con gli altri. Wiebke decide quindi di provare a trovare un modo per aiutare Raya, indagando a livello scientifico ed esplorando anche altre alternative più mistiche, lottando per essere una buona madre.
La sceneggiatura firmata dalla stessa filmmaker propone alcuni elementi piuttosto interessanti per quanto riguarda i complessi temi della maternità e delle tradizioni legate a credenze e superstizioni, perdendo però in più punti il controllo sull'evoluzione del racconto, creando inoltre un'interessante contrapposizione tra l'approccio alla soluzione dei problemi di Wiebke e quello del poliziotto Benedikt (Murathan Muslu), con cui potrebbe nascere una relazione e che diventa una figura paterna per Nicolina. Il film mostra in più passaggi il diverso approccio all'educazione dei due personaggi e alla gestione dei problemi, dovendo capire come controllare qualcosa di selvaggio, che si tratti di un cavallo o di un essere umano. La dedizione di Wiebke nel rieducare e salvare le anime perdute, nella seconda parte del racconto, raggiunge tuttavia degli estremi davvero difficili da considerare seriamente, facendo perdere alla narrazione quella capacità di coinvolgere, affascinare e spaventare.
Pelican Blood propone un'ambientazione quasi da fiaba, con paesaggi innevati e una famiglia contemporanea ma animata in modo al limite dell'idilliaco dall'amore che supera i confini dei legami di sangue, scivolando successivamente in un incubo per i personaggi coinvolti, enfatizzando quanto siano glaciali e isolate le location e mettendo in primo piano il misticismo dopo un interessante capitolo maggiormente scientifico, dando così vita a un alternarsi di approcci agli eventi che frammentano più del dovuto il lungometraggio giungendo infine a un epilogo che lascia aperta la porta a più di un'interpretazione.
Gebbe mantiene alta l'attenzione degli spettatori con il suo ritratto di una bambina al limite del demoniaco e sfrutta l'atmosfera per suscitare dubbi e addentrarsi nella psicologia dei protagonisti, perdendo però il controllo della sua opera avvicinandosi al suo epilogo, rovinando in parte l'interessante lavoro compiuto fino a metà della storia.