La recensione di Patagonia, il film di Simone Bozzelli presentato al festival di Locarno
American Honey ma in mezzo ai trentenni, tra figli, techno e smalto cancellato.
Nomadland senza la serenità di una vita nei grandi spazi ma con l’elettricità dell’underground campagnolo di una specie di
Burning Man degli Abruzzi. L’ambientazione di
Patagonia (che non è la Patagonia ma individua nella Patagonia un paradiso dei sentimenti in modo un po' facile) è tutto e lo rende, nei suoi momenti migliori, un film di amore & lamiere tra le sterpaglie aride, di ricerca di un
coming of age che il protagonista sembra aver atteso per anni nel più improbabile dei luoghi, reso con viva partecipazione e uno stile visivo adeguato, quello con la grana del 16mm, dai colori e dal contrasto giusti, che dà alla storia un tono da cinema indipendente urbano e sensibile di fine anni ’90.
È quando il film deve iniziare a far lavorare la sua scrittura che scricchiola. I presupposti sono un grande classico del cinema italiano: un carattere represso e introverso che si apre alla vita attraverso l’incontro (e scontro) con un carattere estroverso e libero, soprattutto sessualmente. Lo avevamo visto anche recentemente in Calcinculo. Poi il protagonista Yuri decide di lasciare il nido stringente delle sue zie e inizia un viaggio formativo in cui tuttavia non riusciamo mai a conoscere né lui, né le persone che lo circondano, né infine siamo catturati da un’aria più grande. Questo anche perché Andrea Fuorto non sembra la scelta migliore per il personaggio, non riesce mai a crearlo e quindi a veicolarne il candore o la provenienza delle sue difficoltà.
L’impressione è che
Patagonia si appoggi un po’ sull’idea che il contesto che crea con abilità abbia un fascino in sé e che questo basti a sostenere personaggi e relazioni. È chiaro che un fascino lo ha per il protagonista, che viene da un mondo represso, ma il film fa poco per fare in modo che lo abbia anche per noi. Dopo la curiosità e il primo impatto, quando diventa lo sfondo di tutto il film non necessariamente ne siamo così coinvolti (in un verso o in un altro). Non che lo dovesse abbellire (sarebbe terribile!) ma non riesce a trovare la dimensione giusta in cui è possibile per noi capire l’attrattiva (o la repulsione) che, così com’è, ha per il protagonista.
Alla fine entrerà in gioco il patetismo e la risoluzione non apparirà in grado di migliorare la situazione.