Passages, la recensione

Sa perfettamente come essere un film d'autore, Passages, eppure al di là della costruzione corretta gli manca la sostanza

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Passages, il film di Ira Sachs in uscita il 17 agosto al cinema

Molto spesso tutto quello che c’è da sapere riguardo un film sta nel suo inizio, nella prima scena. È come contenuto in nuce. È un assunto critico che risale a Truffaut e che è ancora vero oggi. Passages, come farà fino alla fine, prende questo assunto e lo mette in pratica, sembra cioè farlo apposta sapendo che è caratteristica dei grandi film dichiararsi nella prima scena, invece di farlo avvenire naturalmente. Vediamo infatti una scena staccata dal resto del film, che si svolge sul set del film nel film a cui il protagonista (un regista) sta lavorando. Il resto della storia riguarderà la sua vita dopo la lavorazione sul set, solo lì lo vediamo in azione mentre sgrida un attore per come interpreta una scena di passaggio, un ingresso in scena da una scalinata, criticando il suo linguaggio del corpo e volendo comandare ogni movimento anche più piccolo.

Ira Sachs torna a raccontare una storia simile a I toni dell’amore, solo non in forma di commedia ma di dramma autoriale. Sa bene come si fa e quella scena così esplicativa del personaggio che tutto il resto del film studierà, messa lì in testa, lo spiega bene. Conosce le regole del cinema d’autore e le applica bene. Solo che il cinema d’autore non è un genere, quanto più uno stile libero, l’applicazione di una poetica e di uno stile, di una visione di mondo e di cinema. In Passages invece la storia di una coppia gay e delle altre persone coinvolte sessualmente e sentimentalmente nel loro rapporto, diventa uno scontro in cui è sempre chiarissimo che ci sia un senso più alto ma non quale sia questo senso. Non c’è nulla di male se non la sensazione di essere di fronte all’imitazione del cinema d’autore.

Passages è corretto, è riconoscibile come un film importante, ha una buonissima interpretazione di Franz Rogowski (il più attivo e prolifico tra i nuovi attori europei) e Adele Exarchopoulos in un ruolo perfetto per lei ma anche impalpabile, una donna di cui non conosciamo mai veramente niente e di cui con difficoltà capiamo intenti e interiorità. Ben Whishaw invece ha capito come uscire indenne da un personaggio impossibile (un cornuto che non sa bene che fare). Ognuno serve lo scopo di parlare di relazioni e sessualità su un piano più elevato, ma è inutile al raggiungimento di questo suddetto piano. 

Alla fine questo film-statement, pieno di affermazioni fatte o a viva voce o con le immagini o ancora con le scene, è un manifesto programmatico, un biglietto da visita per accreditarsi nel mondo festivaliero e non esattamente qualcosa che possa rimanere. Nonostante sia esattamente quello che più desidera, gli manca un vero senso, la capacità di dire qualcosa di intenso, di parlare all’intimo delle persone e suggerire a ognuno qualcosa su di sé che prima non sapeva.

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