Partisan, la recensione
Fuori dal tempo e dallo spazio, se non avessimo parole migliori la chiameremmo una favola nera, invece Partisan è un gran film rigoroso, duro e inventivo
Ariel Kleiman realizza un’opera dissonante rispetto alle storie che siamo abituati a farci raccontare, che vuole essere al di fuori di tutto e ritagliarsi una dimensione autonoma. Essere come nessun altro è. Lo fa utilizzando il linguaggio del cinema d’autore (illustrare una situazione con tutta la calma richiesta, preparare tutti i propri nodi senza fretta badando più ad ammaliare che ad avvincere e poi alla fine tirare le corde per sciogliere l’intreccio tutto insieme in un finale tesissimo) e lo fa puntando su un cast di bambini capitanato da Vincent Cassel, loro padre putativo nella storia e loro metaforico mentore nella realtà, un attore che con grandissima umiltà cura il proprio ruolo mentre aiuta tutti gli altri piccoli attori a dare il proprio meglio.
Partisan è un grido soffocato, una storia di umanità in un luogo e un tempo paradossali che fanno scopa con molto di quello che possiamo vedere in giro. Alle volte il crimine è l’unica risposta.
Alla fine quel che succederà alla piccola comunità che poi è una famiglia allargata importa poco, la forza del film è di infondere la sensazione che forse altro non poteva accadere in un simile luogo, la sua audacia è quella di illustrare dei fatti riuscendo a suggerire quanto lo scenario, la situazione e il mondo che ci circonda giochino un ruolo fondamentale eppure difficile da sondare nelle nostre vite. Alle volte la logica non basta e serve l’intuizione, Partisan fa leva sull’intuizione degli spettatori, finge di tenere sullo sfondo l’ambientazione ma in realtà la usa anche più della storia in primo piano per arrivare ai propri obiettivi. Superando benissimo la dicotomia torto/ragione o personaggio buono/personaggio cattivo pone solo domande, senza dare risposte, anzi suggerendo che forse queste non sono mai esistite.