Parthenope, la recensione | Cannes 77

Uno dei film più personali di Sorrentino, Parthenope non è dei migliori eppure contiene forse l'immagine cruciale di tutta la sua filmografia

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Parthenope, il nuovo film di Paolo Sorrentino presentato in concorso a Cannes

Siamo in zona Youth. Quando Paolo Sorrentino ha un credito da spendersi a seguito di un film di particolare successo, lo fa girandone uno come Parthenope. La sua idea di un film più personale e meno mainstream è questa, quella già espressa in This Must Be The Place (che venne dopo la consacrazione di Il divo) e già vista in Youth - La giovinezza (che venne dopo i trionfi di La grande bellezza). Ora dopo È stata la mano di Dio arriva Pathenope, un film in cui la protagonista è una ragazza lungo più di cinquant'anni di vita a Napoli, che di situazione in situazione, di incontro in incontro, cerca di sanare la sua curiosità verso la natura umana. E se già i film più narrativi di Sorrentino vivono sempre di momenti tra il sublime e il misero, tra l’alto e il bassissimo, questo esplicita ancora di più quest’andamento affiancando scene più che raccontando qualcosa. È una strip story più che un romanzo.

Del resto la ricerca di qualcosa spinge molti protagonisti di Sorrentino (siano Jep Gambardella, Berlusconi o Titta Di Girolamo), qualcosa che loro stessi non sanno esattamente cosa sia ma che sentono mancargli per potersi dire felici in senso pieno. Per Parthenope è una strana sete di comprensione degli esseri umani che la spinge a conoscere, il mistero sembra prima lei, questa ragazza bella di una bellezza incredibile che non è chiaro cosa voglia, poi si capisce che lei è solo un mezzo per girare Napoli come Jep girava Roma. Solo che questa città non è la rappresentazione del paesaggio interiore del personaggio, ma la massima espressione di tutto ciò che di bello, brutto e insondabile c’è negli esseri umani. Ci sarà un professore di antropologia, uno scrittore inglese, un cardinale, un bambino gigante e poi fidanzati, parenti e familiari in un film così pieno di domande e risposte a sentenza, nello stile sorrentiniano, che stavolta è necessario che qualcuno lo riconosca anche all’interno del film.

Il film è questo, e al netto del solito lavoro tecnico eccelso, non è dei migliori. Eppure c’è qualcosa dentro Parthenope, come sempre in Sorrentino, annidato in una parte singola del film, uno dei suoi segmenti, in cui tutto quello che sembra voler esprimere trova un’espressione così compiuta da valere la visione anche da sé. È quando Parthenope incontra un cardinale, il più classico dei personaggi sorrentiniani, uno che è capace fin dal corpo e dal volto di unire carisma, cattivo gusto, kitsch e potere. Raffinato con scarso gusto, viscido e grossolano ma anche capace di visioni e considerazioni di un’essenzialità eccezionale. Le figure il cui fascino Paolo Sorrentino subisce e la cui attrattiva sa mostrare a tutti. In quel segmento che finirà (finalmente) con un amplesso, Parthenope viene vestita da santa nell’iconografia popolana e kitsch, con ori e orpelli barocchi, luminarie e cappelloni, un tesoro di Napoli.

Lì tutto è perfetto (e solo quel cardinale così sincretico della promiscuità tra alto e basso di Napoli poteva crearlo), c’è la bellezza di eccezionale caratura di Celeste Della Porta (che tutto il film espone) vestita soltanto di quel barocco folkloristico che si mescola alle forme del suo corpo nudo, trovando una sintesi che parla di un concetto diverso di sacro, che non ha niente a che fare con il religioso (anche se ruba quell’iconografia). È il sacro di Maradona, il sacro passionale e pagano, una trascendenza che brama passione e vorrebbe trasformarla in astrazione. È il sacro di quel cardinale, un animale sessuale brutto ma attraente al tempo stesso. Lì, in un sorrentinismo all’ennesima potenza, finalmente una città e una cultura riescono a essere sintetizzate in un’immagine sola che contiene tutto (l’ambizione di qualsiasi opera di questo tipo). Ci vuole un film intero per arrivarci, e ci vuole che finalmente Parthenope ritrovi i classici dell’immaginario sorrentiniano, ma quella, forse, è l’immagine che sintetizza anche una carriera intera e un’estetica che Sorrentino ha fondato e che raggiunge il vertice artistico del cinema attraverso rappresentando le espressioni più grezze e volgari con impareggiabile sofisticazione.

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