Paradiso Amaro, la recensione
Forse sarà il modo in cui Clooney troverà un Oscar, di sicuro Paradiso Amaro è una piccola opera che non disdegna qualche inganno per trovare una lacrima...
Ad Alexander Payne, lo abbiamo ormai capito, interessano i percorsi dolci e amari in cui i personaggi si scoprono diversi da come la società li etichetta, interessa l'invecchiamento e la maturazione come processo mutante e le piccole storie di piccoli uomini di provincia. Sebbene non appartenente in termini stretti al giro del cinema indipendente in stile Sundance Festival, lo stesso i suoi film applicano quell'idea di ruffianeria per la quale personaggi ordinari in pieno (tranne per una sola evidente particolarità) si scontrano con un contesto amaro e crepuscolare e dolcemente fanno fronte alle difficoltà quotidiane volendosi bene.
Contornato dal solito insieme di implausibilità e contraddizioni che ci piace non vedere (perché non si occupava delle figlie se è così buono? E se non le vedeva mai perché la figlia adolescente prende le sue parti nello scontro con la madre?), Paradiso Amaro distrae il pubblico con un'ambientazione inconsueta e musiche particolari, con tutta una messa in scena finalizzata alla tenera stranezza (solo la corsa goffa di Clooney per mezza città per andare a chiedere un'informazione basterebbe come esempio), ma non opera mai un racconto davvero interessante. Le peripezie di un uomo in fondo innamorato e incredibilmente tenero (con la moglie in rianimazione, con le figlie, con i parenti e con gli amici) non avrebbero stonato in una commedia di buoni sentimenti, ma sono molto meno tollerabili in un film con risvolti seri che vorrebbe realmente parlare delle contraddizioni umane di fronte alle scoperte (molte saranno le sorprese per il protagonista) e, per tornare all'idea di cinema di Payne, alla necessità di cambiare con l'avanzare dell'età.