Paradise Hills, la recensione

Ambientato in quello che parrebbe il mondo di Hunger Games, Paradise Hills è una distopia con poca avventura, molte parole e una vaga idea di finale

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Paradise Hills

La cosa più curiosa di tutto Paradise Hills è che sembra uno spin-off di Hunger Games, un’altra storia in quell’universo narrativo. Tutta la sua idea di futuro e in un certo senso di fantascienza è veicolata dai costumi e dalle scenografie e questi hanno una vicinanza impressionante con arredi e abiti di Panem (la capitale di Hunger Games). Se a tutto ciò poi si aggiunge il fatto che il leader della comunità ristretta in cui è prigioniera la protagonista, cioè la Duchessa, la donna che le deve rieducare per essere brave mogli, ha un fare altero e di classe come il presidente Snow e si contorna pure di rose, il parallelo è quasi completo.

In realtà nella trama c’è un po’ di Il prigioniero (la serie britannica anni ‘60) e un po’ di La fabbrica delle mogli (poi rifatto in La donna perfetta), cioè un luogo bizzarro in cui qualcuno viene riprogrammato ad uso e consumo di una società che vuole ingabbiare la donna nel ruolo che ha avuto per secoli anche in tempi in cui queste si ribellano. La metafora è sottile e chiara.

Tuttavia Paradise Hills non vuole essere cinema avventuroso e d’azione, anzi. È una distopia di parola, e i pochi tratti con un minimo d’azione fanno rimpiangere quelli senza. La sua idea che il corpo della donna, la sua presentazione e rappresentazione, sia il terreno di negoziazione della società e che ogni donna debba stare molto attenta nel gestirlo, è ovviamente efficace ma, di nuovo, era anche l’idea che sottostava Hunger Games. Ed era sfruttata molto meglio in tutta la complessità delle sue implicazioni.

Paradise Hills invece già verso metà è in forte difficoltà rispetto alla direzione da prendere. Questa produzione ispano americana, con l’esordiente Alice Waddington a dirigere e Nacho Vigalondo a scrivere, fa un mix di tante mitologie differenti, si appella al classico quando non sa bene cosa fare (una barchetta a remi nei sotterranei per fuggire!) e sfonda nella critica sociale di classe lungo tutto un finale condito da lunghi spiegoni e un improvviso sconfinamento nel fantastico.

La confusione è tale che ad un certo punto è evidente che anche il casting sia stato caotico perché le interpreti migliori (Awkwafina, sempre più sorprendente) sono marginalizzate e pure un genio della recitazione di genere come Milla Jovovich (anche qui unica che sembra aver capito fino in fondo cosa andrebbe fatto) è imbrigliata.

Puerilissima la chiusa con omicidio a fin di bene e gran soddisfazione da girl power nell’aver compiuto l’atto violento.

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