Paradise Hills, la recensione
Ambientato in quello che parrebbe il mondo di Hunger Games, Paradise Hills è una distopia con poca avventura, molte parole e una vaga idea di finale
La cosa più curiosa di tutto Paradise Hills è che sembra uno spin-off di Hunger Games, un’altra storia in quell’universo narrativo. Tutta la sua idea di futuro e in un certo senso di fantascienza è veicolata dai costumi e dalle scenografie e questi hanno una vicinanza impressionante con arredi e abiti di Panem (la capitale di Hunger Games). Se a tutto ciò poi si aggiunge il fatto che il leader della comunità ristretta in cui è prigioniera la protagonista, cioè la Duchessa, la donna che le deve rieducare per essere brave mogli, ha un fare altero e di classe come il presidente Snow e si contorna pure di rose, il parallelo è quasi completo.
Tuttavia Paradise Hills non vuole essere cinema avventuroso e d’azione, anzi. È una distopia di parola, e i pochi tratti con un minimo d’azione fanno rimpiangere quelli senza. La sua idea che il corpo della donna, la sua presentazione e rappresentazione, sia il terreno di negoziazione della società e che ogni donna debba stare molto attenta nel gestirlo, è ovviamente efficace ma, di nuovo, era anche l’idea che sottostava Hunger Games. Ed era sfruttata molto meglio in tutta la complessità delle sue implicazioni.
La confusione è tale che ad un certo punto è evidente che anche il casting sia stato caotico perché le interpreti migliori (Awkwafina, sempre più sorprendente) sono marginalizzate e pure un genio della recitazione di genere come Milla Jovovich (anche qui unica che sembra aver capito fino in fondo cosa andrebbe fatto) è imbrigliata.
Puerilissima la chiusa con omicidio a fin di bene e gran soddisfazione da girl power nell’aver compiuto l’atto violento.
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