Pantafa, la recensione
La recensione di Pantafa, il folk horror di Emanuele Scaringi al cinema dal 30 marzo
La recensione di Pantafa, al cinema dal 30 marzo
La pantafa, o pantafica, o una delle tante altre versioni locali del termine, è un incubo. È uno spettro che vien di notte, con l’aspetto di una strega, ti si piazza sul petto e ti blocca il respiro – una delle tante spiegazioni folkloristiche date a livello locale al fenomeno della paralisi ipnagogica, ma vallo a spiegare a una bambina che tutte le notti si sveglia con una vecchia bavosa appollaiata sul suo petto. È quello che succede alla povera Nina (Greta Santi, eccellente), che insieme alla mamma Marta (Kasia Smutniak, non serve neanche dirlo) si è appena trasferita a Malanotte, un paese sperduto dell’Abruzzo – “nessuno sa che Malanotte esiste a parte chi ci vive” – per fuggire a un trauma non meglio specificato (e lasciato non detto per tutto il film: è un’ottima idea perché evita di far piombare Pantafa nei territori del dramma da tinello).
Malanotte ha forse una trentina di abitanti, la maggior parte dei quali non sembrano vedere di buon occhio che una mamma single abbia comprato della terra dalle loro parti e sia venuta a invadere i loro spazi con i suoi modi cittadini e provocanti. Pantafa è prima di tutto una storia su quanto sia difficile reinventarsi delle radici se la nuova terra che hai scelto ti impone di stare alle sue regole oppure di fare i bagagli e andartene: ben prima di cominciare a spaventare con spettri e apparizioni maligne, il film di Scaringi punta a farci sentire vicariamente a disagio, a rimarcare come ancora oggi, nel 2023, esistano almeno due Italie diverse, quella delle città e quella dei paesi da trenta abitanti bambini compresi, e quanto queste due Italie facciano fatica a comunicare o anche solo a capirsi.
Che cosa voglia in realtà la pantafa è ovviamente una cosa da scoprire e non saremo certo noi a spiegarvelo. Il mistero colloca il film quasi in territori L’esorcista (citato più volte anche nella composizione dei set), ma Pantafa usa il cattolicesimo in modo diverso, e coerente con l’ambientazione: non un’arma ma parte integrante della superstizione stessa. Il risultato è un horror meno conflittuale e più psicologico, che però commette un peccato (quasi) imperdonabile: appoggiarsi per tutto il terzo atto a modelli estetici, diciamo così, internazionali, che fanno perdere di personalità alla strega e la trasformano “solo” in un altro mostro da film horror. Un doppio peccato alla luce (o all’ombra) del fatto che fin lì il film si tiene ben lontano da ogni standard, anche grazie a una totale assenza di patina.
C’è tutta l’Italia che serve, in Pantafa: quella che fa paura, ma anche quella che vive apparentemente fuori dal mondo, con i suoi ritmi, i suoi tempi e i suoi codici comportamentali. Se insomma serviva un’altra prova che l’Italia sa fare paura quando vuole, Pantafa l’ha superata. Peccato che proprio sul traguardo il film decida di aprire la porta anche ad altre influenze, e in questo modo si appiattisca e perda un po’ della personalità che si era costruito fin lì.